Pietruccio Montalbetti

Pietruccio Montalbetti

Esorto i giovani a viaggiare. Almeno una volta, nella vita, non accontentatevi.

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Pietruccio Montalbetti è un’artista che non si accontenta solo di militare in uno dei gruppi italiani più longevi, ma è sempre pronto a nuove sfide. Durante gli ultimi 50 anni, il chitarrista, bassista, armonicista e cantante della celebre band Dik Dik, ha dato alle stampe numerosi dischi, ha calcato innumerevoli palcoscenici, ed ha immortalato su carta alcune delle avventure collaterali al suo mestiere principale. Anche se, come ama specificare, non si tratta di progetti a sé stanti, perché la sua passione per i viaggi va a braccetto con la sua arte, fino a definirsi “un popolare viaggiatore della musica”. “Settanta a Settemila”, edito da Ultra e scritto con Elia Perboni, racconta la scalata in solitaria sulla montagna più alta della catena delle Ande, l’Aconcagua. Un percorso compiuto senza tecnologia, lontano dalle comodità della vita moderna, per riscoprire la bellezza delle cose che, molto spesso, ama non farsi notare ma, al contrario, scoprire improvvisamente.

Pietruccio, grazie per aver accettato il nostro invito. Ci parli della sua ultima impresa immortalata sulle pagine di Settanta a Settemila.

Si, ho scalato l’Aconcagua, la più alta montagna delle catena delle Ande. Mi son detto, se sono riuscito, due anni prima, a scalare i seimila km del Kilimangiaro, perché non provare i settemila? Ci son stati sei mesi di preparazione. Parto sempre da solo, li ho trovato una guida. L’esperienza è stata spaventosamente faticosa, mi avevano già avvertito, “guarda che è una brutta bestia questa qua”, ed ho capito perché. E’ una montagna brulla, non c’è niente. Arrivano improvvisamente delle tempeste di ghiaccio, neve, improvvisamente.

Era il 2011 quando hai deciso di intraprendere il viaggio riportato fedelmente in “Settanta a Settemila. Settemila sono i metri che ha scalato per raggiungere la vetta dell’Aconcagua. Ha mai pensato di star superando il limite della sua sopportazione fisica?

Per arrivare al campo base erano necessarie 14 ore di cammino. E’ stata un’impresa che non ha voluto dimostrare niente, o almeno nulla legato alla mia condizione fisica. Adesso ho settant’anni, ero ben allenato. Nella mia vita non ho mai fumato, non ho mai bevuto, non mi son mai drogato, sono cintura marrone di karate, di judo, ho fatto una serie di cose importanti per il mio corpo. Questi viaggi mi han fatto capire com’è il mondo esterno e, soprattutto, che viviamo una serie di privilegi di cui non siamo neanche consapevoli. Quando viaggio mi immergo totalmente nella vita delle popolazioni che incontro. Mangio come mangiano loro, dormo come dormono loro, vivo come vivono loro. I miei viaggi mi hanno insegnato punti principali, il primo è la modestia. Vivo a Milano e prendo i mezzi pubblici, come tutti. Non mi sono mai comportato da star, le persone mi riconoscono per strada e si stupiscono della modestia con cui mi faccia vedere in giro senza nessuno al seguito, ma spesso sono io a stupirmi del loro stupore. Viaggiando e conoscendo altre popolazioni ho imparato a capire ancora maggiormente di quanto non bisogna fare alcuna distinzione, bianchi, neri, gialli, eterosessuali, omosessuali: quello che conta è quello che c’è dentro.

E forse è anche questo che racchiude tutto il senso del tuo viaggio.

Non ho il beneficio della fede. Ho letto e studiato molte cose. Ho letto la Bibbia integralmente, che non è una cosa facile. Poi ho letto i Vangeli apocrifi, sto leggendo il Corano. Attraverso questi studi mi sono reso conto che forse, non vi è mai la certezza nella vita, che Dio non sia come ce l’hanno raccontato. Non so se Dio esiste, ma so che esiste il concetto d’Amore

C’è un duplice messaggio che voglio inviare, ad entrambe le generazioni, la mia, e quella odierna. Vorrei invitare la mia generazione a tenere sempre la mente fresca e piena di interesse verso ogni tipo di progetto, perché solo in questo modo non si appassisce. Ai giovani, invece, esorto a viaggiare. Non accontentatevi di vedere quei bei documentari che anch’io vedo, tra un progetto e l’altro. A quelle belle immagini mancano tasselli fondamentali, come il profumo della terra, il vento che soffia, il profumo della foresta, il canto degli uccelli, la fatica, il sudore, il sole, la pioggia. Almeno una volta, nella vita, non accontentatevi.

Ecco, io credo che essenzialmente il viaggio sia metafora della vita. Ti aiuta ad evolverti, a capire com’è l’altra parte del mondo. Qui ci lamentiamo della crisi, ma sono stato in Africa, ho conosciuto dei popoli che soffrono solo perché non hanno acqua, un privilegio che noi diamo quasi per scontato. Ho dato disposizioni a tutti, in casa, di non sprecare acqua e di chiudere i rubinetti. L’acqua è preziosissima, ma evito lo spreco in tutti i sensi. Non butto mai niente e cerco sempre di riciclare qualsiasi cosa.

Hai visto una popolazione di Indios dalle caratteristiche fisiche peculiari: sei dita anziché cinque. Un villaggio di 200 persone, in cui forse era lei il “diverso”. Com’è stato accolto?

Ho incontrato cinque indios ecuadoriani che parlavano spagnolo, stavano cercando una popolazione per conto di un gruppo scientifico che voleva effettuare uno studio specifico. Nel giro di cinque minuti ho chiesto ed ottenuto di andare con loro, mi sono imbarcato con cinque indios mai visti in vita mia e dopo due settimane ci si amo ritrovati tra questi Aucas. Tra di loro, soprattutto per i bambini, io ero forse la prima o la seconda persona che vedevano al di fuori della loro popolazione. Loro non sanno nulla di quello che c’è fuori, ma vivono lo stesso tranquillamente. Alcuni di loro hanno sei dita, ma non si tratta di una cosa unica. Ci sono dei santi del 1500 che sono rappresentati con sei dita. D’altronde noi discendiamo dagli animali, e il nostro coccige altro non è che la coda. Evidentemente c’erano degli animali preistorici che avevano sei dita per afferrare meglio le cose, e a qualcuno è rimasto nel DNA. Inizialmente ci hanno accolto con diffidenza. Sai, la gente pensa che il mondo sia solo questo in cui viviamo, ma ce n’è un altro, molto primitivo, e avvantaggiato per non aver perso gli istinti primari che noi non abbiamo più. Se un giorno la tecnologia ci abbandonasse improvvisamente, saremmo perduti. Loro, magari, continuerebbero a vivere senza alcun cambiamento. Per la caccia, e quindi per mangiare e per vivere, adoperano soltanto i propri sensi. Loro mangiano quello che cacciano, nulla di più. Sono molto più ecologisti di noi, che mangiamo per il gusto di farlo, loro lo fanno per vivere. Sono stato in Africa, quattro volte in India, in Tailandia, in Birmania, per immergermi nei popoli, per capirli e per capire, quindi, me stesso. Quando dico che il viaggio è metafora della vita, intendo che in solitudine ti rafforzi e torni indietro vedendo le cose da un’altra prospettiva. Capisci cos’è la miseria, la difficoltà, di quanto sia importante l’acqua, che sprechiamo così tanto. Noi occidentali scartiamo cibo che sfamerebbe centinaia di migliaia di bambini. Le mie esperienze personali mi hanno formato e reso quello che sono oggi.

Sei un viaggiatore, ma ha mai considerato labile il limite che possa nascondersi tra partire e scappare? Ci sono stati anche viaggi-fughe nella tua vita?

Viaggiare non è mai una fuga. D’altronde, ho una moglie fantastica ed una vita fantastica dalla quale non fuggirei mai. Partire è una ricerca di qualcosa che forse non troverò mai, ma l’importante è, appunto, cercare ed interessarsi. Quest’anno avrei dovuto raggiungere la Papuasia, ma ho deciso per un cambio di rotta. Partirò con mia moglie per un safari fotografico in Africa, una sorta di vacanza esplorativa.

Per “Io e Lucio Battisti”, edito da Salani nel 2013, prendi una pausa dai racconti di viaggio e parli del rapporto con il compianto artista. In molte interviste hai rivendicato di averlo conosciuto ed aiutato “quando nessuno lo conosceva”. Ricordi il tuo primo incontro in assoluto con Lucio?

Ho conosciuto Lucio Battisti prima che iniziasse la sua carriera, quando suonava in un’orchestra. All’epoca suonava le sue canzoni, che non sono quelle per le quali è diventato Lucio Battisti. Composizioni mediocri, ma poi ci ha pensato Mogol ha trovare la chiave giusta. Ho conosciuto Lucio al di là delle rispettive carriere, perché nel 1964 era praticamente tutti i giorni a casa mia, con mia mamma e mio papà. Era proprio uno di famiglia, lui chiamava mia madre “mamma”. Abbiamo lavorato spalla a spalla, e nel corso degli anni mio fratello, venuto a mancare sei mesi fa, ha creato tutte le copertine dei suoi dischi: Cesare Monti. Poi c’è stato un piccolo sgarbo, una telefonata che mi aspettavo ma che non arrivò mai, e mi feci negare per quasi due anni. In un modo o nell’altro superammo l’empasse, anche se non parlammo mai chiaramente della questione. Quando tornavo dai miei viaggi lo andavo a trovare, lui mi diceva “a pietrù, allora che me racconti?”, e io iniziavo a raccontare per filo e per segno ogni dettagli. Era un ascoltatore assiduo e attento di tutto quello che facevo.

E a proposito di musica, ci sono nuove notizie sotto questo punto di vista?

Oggi abbiamo concluso un nuovo contratto discografico, per una grossa casa discografica, sei il primo a saperlo. Registriamo un nuovo disco con tutti i nostri pezzi famosi con l’intervento di qualche ospite, tra cui i Tiromancino, Arisa, Marco Masini. Al di là della musica, in maggio intraprenderò un viaggio particolare. Insieme ad un elicotterista che ha dei cavalli, in maggio ripeteremo lo stesso percorso che fecero Mogol e Battisti nel 1970, Milano-Roma a cavallo. Per il resto ho altri nove libri da pubblicare. Si, faccio molte cose. Leggo, scrivo, suono, viaggio, vado a vedere concerti rock. Faccio esattamente tutto quello che mi piace fare.

Carmine Della Pia

Unfolding Roma

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