Da Via Vetulonia Allo Scudetto, La Lunga Strada Di Francesco Totti

Da Via Vetulonia Allo Scudetto, La Lunga Strada Di Francesco Totti

Paolo Condò ha curato la biografia dell'ex capitano romanista. Ne esce un ritratto intenso e colmo di retroscena

stampa articolo Scarica pdf

Da via Vetulonia, punto di partenza di questa storia, la strada è stata lunga. E pensare che poteva esserlo ancor di più se Francesco Totti, che capitano non lo è più ma ha già incastonato la sua fascia nella città eterna, come la sua storia con Roma e la Roma, avesse accettato la corte del Real Madrid. Anche i grandi vacillano: quando Perez, pluridecorato presidente blancos, spiattella in faccia a Sensi, durante un pranzo, l’intenzione di portargli via la bandiera, l’ex Pupone ci pensa. Traditore? Ipocrita? No, semplicemente umano. Perché il Real, o qualunque altra squadra europea l’avesse cercato, avrebbero dato al numero dieci ciò che a Roma ha a lungo sognato ma mai agguantato. Una Coppa dei Campioni, forse un pallone d’oro, ma alcuna investitura: sarebbe stato uno dei tanti, uno dei “galacticos” che si faceva fatica a mettere in campo tutti insieme perché si giocava solo in undici. E invece no: la storia di Totti con Roma e con la Roma è l’unico argomento plausibile della biografia dell’ex capitano giallorosso curata, magistralmente, da Paolo Condò e uscita lo scorso settembre. Se è vero che ogni vita merita un romanzo, anche la più ordinaria possibile, quella di chi ha calcato per tanti anni i campi di calcio ed è entrato nelle case dei romani ma in fondo di quasi tutti gli italiani, è una storia che racchiude una trama con un lieto fine e intensi personaggi che ruotano intorno al protagonista.

La vita e la carriera di Totti iniziano in quella via dove se ne andava in giro in bicicletta e giocava per ore all’oratorio con gli amichetti. Un’altra Italia, un altro calcio, dove potevi aspirare alla gloria se facevi due tiri decenti con i compagni di catechismo con il prete d’ordinanza, perché poteva sempre esserci qualche osservatore dei più scafati che se ne andava in giro a pescare talenti e quel giorno aveva scelto proprio il tuo campetto e la tua parrocchia. Prosegue con gli esordi, col primo gol, con lo sguardo basso di chi è l’ultimo arrivato ma si becca 217 milioni di premio perché quella Roma che sarà l’unica squadra della sua vita ha passato tre turni di Coppa. Piccolo particolare: lui, a 17 anni, non era stato nemmeno convocato. Ma è proprio per quello sguardo basso e quell’atteggiamento da garzone di bottega che i vecchi dello spogliatoio decidono di premiarlo. La vita e la carriera di Totti sono tutte una fuga e una corsa: verso l’area avversaria, verso piazza dei Cavalieri di Malta dopo aver scavalcato un muro di cinta, nella sera in cui centinaia di tifosi si appostano fuori dal ristorante dove cenava, fino a quell’ ultima notte da capitano, il giorno prima di Roma-Genoa, quando insieme ai suoi amici sfreccia in motorino fendendo l’aria della notte romana. Non fraintendiamo: quella fascia e quel carisma, apparentemente strano da trovare in quella sua aria da ingenuo, lo hanno portato a metterci sempre la faccia e a non scappare dinnanzi ad alcuna avversità.

Che per chi ha scelto di restare in una squadra che ha vinto tre scudetti in novant’anni e non ha mai conquistato un alloro europeo, è impresa ardua, soprattutto nel calcio di oggi dove le bandiere, e lui forse è stata l’ultima, sono state tutte ammainate. Le storie: il Mondiale 2006, l'avversaria di una vita, la Lazio, l'infortunio che quasi gli impedisce di andare in Germania e quel pallone calciato d'istinto quando è ancora convalescente, che scatena l'ira dei medici; e i personaggi, dunque: dalla compagna Ilary, per la quale la dimensione di superuomo viene drasticamente ridotta a beneficio di un tenero ragazzo perdutamente innamorato di quella ragazza vista in tv. E che diventa, con gli anni, una compagna straordinaria: lo supporta e lo incoraggia, lo indirizza e lo sprona a renderla fiera. I figli, di cui Christian, il primogenito, esortato a giocare come faceva lui, non in prati verdi preconfezionati ma davanti a sporchi garage da prendere a sportellate con il pallone, e l'inseparabile Vito Scala, amico leale e sincero oltre che professionista affidabile. E soprattutto, i compagni, gli avversari e gli allenatori: dal rapporto di amore e odio con Cassano, allo smisurato affetto per De Rossi, alla fiera rivalità con Nesta, con il quale Totti si misura sin dai Roma-Lazio della categoria giovanissimi. Il padre Mazzone, quello che lo lanciò e che una volta lo tolse dall’imbarazzo di una conferenza stampa che per un teenager sarebbe stato affare prematuro; il sergente Capello, pretenzioso e duro ma di gran lunga il migliore di tutti, con il quale il dieci corona il sogno di uno scudetto nella capitale; da Lippi che si presenta al suo capezzale di buon mattino per intimargli di guarire in fretta prima della vittoriosa spedizione tedesca, ai quaranta chilometri al giorno di Luis Enrique (casa sui Parioli-Trigoria, in bicicletta, ogni settimana), maniaco dell’atletismo e incompreso totalista del calcio che prova a rendere la Roma un simil Barcellona senza fare i conti con il contesto in cui si era calato; il romano Ranieri, scelto dalla società dopo che lui e i gli altir senatori dello spogliatoio avevano votato per Mancini, che lo sostituisce in un derby (sacrilegio), vincendolo; e poi il guascone Garcia, che dopo i gradoni di Zeman, un passaggio a vuoto alquanto penoso e a posteriori evitabile, ridona alla Roma e a Totti il piacere di allenarsi e divertirsi a briglie quasi sciolte, con la conseguenza di pagare dazio quando la blanda preparazione chiederà il conto a fine stagione.

E poi lui, Spalletti: messo alla fine del libro come fosse il gran finale, come se il pubblico si debba chiedere chi fosse l’assassino. Non sveliamo troppi dettagli, se non che il rapporto con l’allenatore di Certaldo vive di due fasi: l’una positiva, che si trasforma in negativa per colpa delle… carte da briscola. Bollito o meno, Totti si rende conto che è ora di smettere e che qualcuno, forse, aveva già scelto per lui. E allora, nel maggio 2016, a Roma-Genoa, campeggia uno striscione: “Era mejo se morivo prima”. Per non vedere ammainarsi l’ultima bandiera. Tutto romano, come Totti, che ora ha un’altra vita davanti. E che grazie al capillare lavoro di Paolo Condò, ha messo nero su bianco il lato A della sua esistenza. Niente barzellette stavolta, come quel volume uscito nel 2003: c’è una carriera da raccontare. Si ride, certo, ma non solo. Come nella vita di tutti noi, del resto. Che abbiamo, almeno qualche volta, indossato come lui la pesantissima numero 10.

Stefano Ravaglia 

© Riproduzione riservata