Il Gol Alla Radio. Riccardo Cucchi E Trent'anni Di Giornalismo

Il Gol Alla Radio. Riccardo Cucchi E Trent'anni Di Giornalismo

Giornalismo, pallone, vita e il suo nuovo libro, "Radiogol". Dove il calcio conserva alla dimensione romantica

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"Nostalgici", "Passatisti", e via discorrendo. Il tempo ha funzionato da tritatutto, e oggi, chi volge lo sguardo al calcio del passato e si fa custode della memoria, viene appellato così, come un ingombrante elemento anacronistico. Leggere "Radiogol", il libro di Riccardo Cucchi (ed. Il Saggiatore), è l'ennesimo tentativo, riuscitissimo, di far comprendere come nella memoria storica non vi sia nulla di deleterio, tutt'altro. Il romanzo del pallone non può prescindere dalla sua storia e dagli uomini che l'hanno raccontata. Riccardo ha buttato giù una storia di calcio ma anche di giornalismo, di sport e anche di vita. Riccardo ha realizzato i suoi sogni. A volte accade: con impegno, sacrificio, dedizione e tirando dritto verso la propria strada. E i Ciotti, gli Ameri, la radio che testimoniava quanto il calcio fosse un rito e non un intrattenimento come oggi, sono elementi imprescindibili da non far divenire preda della polvere. Di questo abbiamo parlato con Cucchi, voce storia di "Tutto il calcio minuto per minuto" che ha lasciato nel febbraio 2017 dopo più di trent'anni di radiocronache entrando nelle case degli italiani. Ma anche di molto altro.

Riccardo, una volta hai detto: "In radio ti ascoltano, in tv ti guardano ma nessuno ti ascolta". L'indigestione tecnologica di oggi, in un mondo sempre connesso, ci ha fatto perdere la capacità di ascoltare? 

L'immagine televisiva è molto distraente, mentre alla radio la concentrazione massima è sulla parola. La radio è la casa della parola, che hanno significato ti entrano dentro. In tv sei più distratto da come è vestito il conduttore o dalla pettinatura della conduttrice, e probabilmente alcune parole ti sfuggono. In tv, detto con molta sincerità, non vince la parola ma l'immagine. Per quanto riguarda i social, io credo che il problema sia che essi riducono la lettura della realtà e la capacità di comprensione. I social sono stati un passo indietro rispetto alla capacità comunicativa, riducono il numero di parole utilizzabili e in questo senso, pur essendo una straordinaria forma di comunicazione e penetrante, sul piano del linguaggio hanno piuttosto favorito una involuzione. 

Sandro Ciotti, uno dei tuoi punti di riferimento, ti consigliava di lavorare come avessi sempre uno zaino di parole con te. Ora che non fai più le radiocronache (l'ultima nel 2017, Inter-Empoli, ndr) è uno zaino che ti serve ugualmente per la vita di tutti i giorni?

Sandro quando mi diede questo insegnamento, uno dei rari, perché lui e Enrico Ameri non davano mai insegnamenti ma occorreva che tu li rubassi, in quel momento non immaginava che il suo insegnamento non si limitasse alla professione e al lavoro. Questo zaino è sempre con me ogni giorno, più parole conosciamo e più possiamo difenderci da chi ci vuole ingannare. Io credo che sia un obbligo morale ed etico e culturale, aumentare il nostro vocabolario ci aiuterà a essere uomini liberi, per cui vale per tutta la vita. 

Il tuo libro, "Radiogol", è come un romanzo, una serie di racconti ma con personaggi veri, reali. E soprattutto positivi. Ma nella vita di Riccardo Cucchi ci sono stati anche degli antagonisti?

Certamente sì. Ci sono stati come nella vita di tutti noi dei momenti in cui non mi sono trovato d'accordo con alcune persone. Non ho voluto inserirle nel racconto, volevo fosse tutto esemplificativo di come sia bello questo mestiere. Le belle persone sono quelle che ti aiutano a crescere e ad arricchirti, le persone che non ti aiutano non meritano nemmeno di essere citate. 

I telecronisti di oggi pare puntino parecchio sul sensazionalismo. I temi sono cambiati parecchio rispetto a un tempo. 

Oggi se mi consenti c'è molto gossip. Non si racconta più lo sport, ma i pettegolezzi e oggi è molto più negativo. 

Altro handicap odierno è la mancanza di approfondimento e di cultura calcistica.  

Ci sono due elementi: il primo è la mancanza di conoscenza storica. Noto spesso nei giovani colleghi la mancanza di conoscenza del passato. Il calcio rappresenta un secolo e mezzo della nostra storia, è una storia intensa ma breve, però non si può andare a vedere una partita da appassionati senza curiosare nel passato e sapere cosa c'è stato prima. Per capire chi ha fatto del calcio uno straordinario romanzo popolare, perché di questo si tratta. Un grande romanzo che si scrive puntata per puntata agli inizi del secolo, che ci coinvolge sul piano dell'entusiasmo, della memoria e della storia. In secondo luogo, il modo moderno di fare giornalismo: è cambiata la narrazione, se oggi andiamo a leggere Gianni Brera o Gianni Mura, uno dei colleghi che stimo di più, ci rendiamo conto di come la letteratura sportiva si avvicini sempre di più alla letteratura tout-court. Quanto questi autori abbiano messo della loro cultura e sapienza. Noi ci avviciniamo a loro e mano a mano ci accorgiamo quanto sia cambiato il nostro modo di raccontare. A me sinceramente non appassiona leggere sui giornali colonne e colonne su una decisione arbitrale, o sul Var. Dobbiamo informarci su tutto per lavoro, ma l'etica dello sport è una buona cosa se si raccontano gli uomini.

Arrigo Sacchi ricorda spesso che l'Italia, sia calcisticamente che storicamente, è un paese che gioca in difesa, spesso incapace di osare. Sei d'accordo?

Io sono innamorato di Sacchi. Ho avuto la fortuna di vivere l'epoca di Sacchi e l'onore di prendere in mano l'eredità della Nazionale nel 1994, quando c'era Sacchi. E' stato un uomo importante per la storia del calcio italiano per come ha letto questo rito sacro della domenica, come diceva Pasolini. Devo fare però un appunto: probabilmente non è per colpa sua, e la mia stima è restata intatta, ma quelli che sono venuti dopo hanno trasformato la filosofia di Sacchi in altro. Per esempio la tattica del pressing: quello che era stato il punto di forza di Sacchi, è divenuta una difesa a tutto campo, una tattica di distruzione del gioco avversario senza proporre nulla di nuovo. Si preferisce giocare, specialmente le più deboli contro le più forte, distruggendo il gioco degli altri con il pressing. Ti dirò di più: quando mi capita di vedere una bella azione di contropiede oggi, lo apprezzo.

Nel libro citi la tua esperienza a Campobasso, per il neonato TG3, alla fine degli anni Settanta. Un posto dove non accadeva nulla e dove bisognava andare a caccia di storie. Oggi il "giornalismo da computer" pare prevalere. Sei d'accordo?

Sì, oggi qualche giornalista si è impigrito. Ma è anche una scelta anche degli editori perché mandare in giro un collega costa, e si preferisce aspettare che le cose arrivino sulla scrivania. Secondo me è un errore. Enzo Biagi dava una grande definizione del nostro mestiere: testimoni della realtà. Un buon giornalista è questo. Io sono per un giornalista che consuma le suola delle scarpe, gli occhi dei giornalisti sono necessari per tutti per capire ciò che accade lontano da noi. Devono potersi muovere, confrontare con il racconto di una realtà che muta sotto i loro occhi. Al computer arriva la pappa fatta, spesso anche finta e artefatta. Non siamo capaci di distinguere il vero dal falso. La prima regola che ci insegnavano, soprattutto nel periodo in cui ero a Campobasso, era la verifica delle notizie: giravamo stazioni di polizia e carabinieri al mattino e stavamo ore e ore al telefono per capire cos'era avvenuto e se corrispondesse al vero. Questo tipo di giornalismo non c'è più e secondo me si è persa la natura stessa del giornalismo, che è raccontare i fatti e la verità dei fatti.

Nel libro citi anche della tua intervista a Maradona. Ottenuta grazie alla lungimiranza e alla grande disponibilità dell'addetto stampa del Napoli di allora, Carlo Iuliano. Una volta era più accessibile il "dietro le quinte" per chi faceva il giornalista?

Carlo è scomparso pochi anni fa, era il capoufficio stampa e tutti noi lo conoscevamo e lo amavamo come persone per bene. E da giornalista, com'era stato prima di diventare addetto stampa, capiva benissimo quali fossero i nostri problemi e le peculiarità del mestiere.  Oggi gli uffici stampa sono semplicemente agli ordini della proprietà. Spesso ci oppongono dei "no" perchè non si può e limitano il nostro lavoro. Oggi per arrivare a un calciatore devi arrivare anche al suo manager, al suo sponsor, e via discorrendo. In qualche caso addirittura devi pagare. Quando a Iuliano proposi l'intervista a Maradona, che mi era stata chiesta, per me era come scalare l'Everest. Lui capì perfettamente la mia situazione professionale e soprattutto umana, aprendomi tutte le porte possibili e immaginabili. E potei restare 20 minuti a dialogare con Diego io e lui soli, davanti a un caffè.

"Radiogol" è un libro che parla di calcio ma soprattutto di tanto altro. Nel 1988 segui le Olimpiadi a Seul, e ti rendi conto della condizione subordinata della donna. Che procede un passo indietro all'uomo, che si imbarazza quando tu fai un gesto galante per farla entrare per prima in un negozio. Si parla molto della situazione della donna oggi. Che punto di vista hai tu che hai visto ed esplorato culture molto diverse dalla nostra?

In quella società in particolare oggi non è più così, l'ho verificato quando sono tornato là nel 2002 per il Mondiale. All'epoca la subordinazione era totale. Per fortuna anche il mondo è arrivato in Corea e le donne hanno preso coscienza del loro ruolo e del diritto alla parità. Certo che questo è un problema che riguarda altre zone del mondo, oggi, anche da noi, non si comprende che quella cultura che poneva le donne subordinate a un potere, non può essere più accettata e che la cosa deve essere respinta. Il cambiamento deve essere chiaro ed evidente soprattutto nella coscienza dell'uomo.

Riccardo, per chiudere: secondo c'è ancora qualcuno che, come facevi tu nella tua casa di Roma, va sulla grande terrazza del palazzo ad ascoltare la radio guardando in direzione dello stadio?

Temo di no. E non so dirti se sia un bene o un male. Io ho vissuto il calcio con grande romanticismo, con i sogni di bambino che volevo plasmare in quel palazzo al settimo piano. Sognando di raccontare qualcosa che vedevo e non solo immaginandolo. Ciò è stata la base per dedicare tutto me stesso a questo mestiere. Bisogna però dire che oggi i ragazzi possono vivere il calcio in mille modi. All'epoca c'era solo la radio, oggi ci sono tantissimi altri strumenti per poterlo fare scegliendo tra il telefono e il pc, tra una piattaforma televisiva e un'altra. Non ci sono zone d'ombra oggi in cui il calcio non sia trasmesso e non sia possibile averne notizie, quindi sono più fortunati e più liberi. Certamente secondo me non avranno lo sviluppo di quella fantasia e di quella immaginazione che io all'epoca avevo. La passione delle persone è la fiamma che alimenta il calcio, non si può in nessun modo mercificare o mancare di rispetto a questa passione. Mi auguro che lo capiscano.

Stefano Ravaglia

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