Un uomo è sgomento e prostrato in uno sconforto totale a causa del suicidio della sua giovane moglie, il cui corpo giace su di un tavolo accanto a lui.
L’uomo cerca di raccogliere i pensieri prima che gli portino via il corpo e il distacco diventi totale; sente la necessità impellente di chiarirsi cosa sia accaduto fino a quel momento, impegnandosi a raccontare con ordine gli eventi.
Comincia così un flusso di pensieri e ricordi che nell’ordine stenografico del racconto si sviluppa in un monologo delirante fatto di interruzioni, ripetizioni, affermazioni e contraddizioni. Un monologo interiore che a volte sembra rivolto ad un uditorio esterno a se stesso.
“C’è qualcosa che non ho saputo fare, qualcosa non è andato per il verso giusto (…); Sono una parte di quella parte del tutto che vuole fare il bene e crea il male”.
L’uomo, proprietario di un banco di pegni sposa una giovanissima ragazza buona e mite, salvandola dalla convivenza con due avide zie e da un matrimonio umiliante, ma condannandola a una vita in continua sospensione, priva di afflato.
Permaloso, superbo ed egoista, le impone una distanza che li fa precipitare in un silenzio abissale che li inghiotte inesorabilmente.
L’uomo è un ex ufficiale allontanato con disonore che riversa sulla mite ragazza la propria frustrazione applicando una vendetta contro l’avverso destino. Nonostante alcuni slanci, la mite abbraccerà a sua volta il silenzio, cercando un riscatto casto nella compagnia di un ex commilitone del marito.
La situazione degenera progressivamente con lui che esercita il dominio psicologico e lei che accetta e subisce in una resistenza passiva.
Quando egli prenderà consapevolezza del dramma provocato, sarà troppo tardi. Come atto finale di protesta e liberazione, la mite porrà fine alla propria vita lasciando l’uomo ad arrovellarsi sull’accaduto nella disperazione.
Egli si riappropria così della sua solitudine, convinto ormai di aver capito tutto e leggendo anche questo evento come uno sgambetto crudele del destino.
La Mite è un racconto complesso, un intricato ragionamento dell’uomo con se stesso, un confronto con la propria coscienza e di essa con un disegno superiore (il destino? Dio?); è l’affermazione presuntuosa e superba di un io orgoglioso, malato, avvelenato dalla rabbia per il rifiuto e l’esclusione.
E’la storia di una umanità mediocre, di un’affettività muta, che non riesce a esprimersi, di una incomunicabilità che esclude l’altro a priori come soggetto e lo tratta come oggetto.
L’andamento è articolato, frastagliato, pieno di pause e ripensamenti; non c’è un andamento logico, ma una gincana di pensieri e riflessioni su degli eventi tragici.
Leonardo Sbragia si impegna fortemente a rappresentare questo continuo andare e interrompersi, con uno stile appassionato e concitato, interpretando il turbamento del protagonista, ma allo stesso tempo non convincono gli accenti e i colori, i fiati e le pause. Si tratta probabilmente solo di questione di gusto personale in questo caso.
La scelta di far rivivere la presenza o l’assenza de La Mite col ballo, attraverso i movimenti coreografici ben eseguiti in scena da Giorgia Di Cristofalo, ma ripetitivi, tra slanci, scatti e movimenti più ampi, non sembra adatta, disturba anche un po’, rendendo nulla dell’angoscia e della solitudine del personaggio, ma anzi risultando questi movimenti pleonastici e ridondanti.
Interessante la scelta musicale che spazia dai Led Zeppelin a Maria Teresa Vera, da Bach e Vivaldi ai Radiohead, da René Aubry ad Alexandra Strelinsky.
Flaminio Boni
La Mite
Liberamente tratto da
“La Mite” di FedorDostoevskj
Adattamento di Raffaella Mattioli e Rossana Banti
Con Leonardo Sbragia e Giorgia Di Cristofalo
Regia e coreografie Raffaella Mattioli
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