La Capacità Di Esorcizzare La Solitudine Con Una Rassegna Nel Cuore Di Roma

La Capacità Di Esorcizzare La Solitudine Con Una Rassegna Nel Cuore Di Roma

Continuano le interviste ai partecipanti al concorso "Il canotto parlante, concorso di drammaturgia". In prossimità della rassegna (8-15 Novembre c/o Teatro Porta Portese) intervistiamo Roberto Cavalieri.

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L’associazione culturale La Ciambella (una www.laciambella.com), comunità di persone in cui convergono pensieri e azioni legati al mondo della cultura e dell’arte, si è chiesta più volte, in questi periodi difficili, come non arrendersi e continuare a camminare. Nonostante la chiusura che ci ha visti tutti protagonisti in una solitudine corale, l’Associazione ha cercato, quasi per sfida, di dedicare alla tematica un concorso di drammaturgia dal titolo “Il canotto parlante”. Scopo è stato quello di raccogliere monologhi e testi che esorcizzassero una solitudine figlia di paure ancestrali e moderne. Grazie ad una giuria tecnica di alto valore artistico (Francesco Maria Cordella, Patrizia La Fonte, Adelmo Togliani, Federico Malafronte, Francesco Randazzo, Margherita Tiesi, Francesca Garello) sono stati selezionati i testi ammessi al Festival teatrale che si terrà, dal giorno 9 al giorno 15 di Novembre c/o Teatro Porta Portese.

I social, in questi tempi, sono stati di aiuto per trasformare tutte queste energie in una rassegna culturale fatta non solo di teatro, ma anche di tavole rotonde e incontri che verranno presentati nei prossimi giorni.

Continuiamo a conoscere i drammaturghi ammessi al Festival.

È la volta di Roberto Cavalieri

Da dove è arrivata l'ispirazione per il testo presentato al concorso “Il canotto parlante”?

Il monologo si ispira ad un fatto realmente accaduto.

Il 25 gennaio 2006 il corpo di Joyce Carol Vincent, una donna di origini caraibiche di trentotto anni, viene ritrovato senza vita nel suo appartamento di Londra dagli ufficiali giudiziari entrati in casa sua per darle lo sfratto. Attraverso alcuni indizi, la sua morte per cause naturali viene fatta risalire a circa tre anni prima, nel dicembre 2003.

Intorno a quello che restava del suo corpo, trovato sul divano davanti alla televisione ancora accesa, pacchetti e regali di Natale che aveva preparato con cura. Il monolocale in cui viveva era di proprietà di una società che si occupava delle vittime di abusi domestici, e copriva l’affitto e parte delle spese.

Un paio di settimane prima della presunta data del decesso era stata ricoverata d’urgenza in ospedale in seguito ad un attacco di ulcera peptica; sul modulo dell’accettazione aveva scritto, tra le generalità del parente più prossimo, quelle del suo direttore di banca.

Ciò che sappiamo della sua vita sono frammenti contraddittori: quindici anni di lavoro nella City, la passione per il canto, alcuni flirt, un fidanzato per un breve periodo, piccole esperienze come vocalist nei locali di Camden Town, addirittura una cena con Stevie Wonder.

All’improvviso però, qualcosa nella sua vita si rompe e la ritroviamo poco prima di morire a pulire camere d’albergo di quart’ordine, sofferente e trasandata, ospite di una casa per donne maltrattate.

Di Joyce bambina, solo poche immagini: la madre che si allontana in auto per andare in ospedale senza fare più ritorno, il padre che si lega ad un’altra donna e va a vivere lontano facendo perdere le sue tracce. Le sorelline, da cui si separa precocemente e con cui non avrà più contatti, verranno a sapere anni dopo della sua morte solo dai media.

Incredibilmente il suo cadavere viene ritrovato senza che Joyce figurasse tra le persone scomparse. Nessuno la stava cercando.

Nel suo testo presentato al concorso quali sono state le maggiori difficoltà che ha incontrato? L'attinenza al tema? I tempi drammaturgici?

Direi forse nessuno dei due. Più che altro credo che la difficoltà maggiore, quando mi capita di scrivere per il teatro, e in particolar modo un monologo, sia di cercare di stare anzi il più lontano possibile dal tema. Se per tema intendiamo la vicenda, la trama, lo scopo verso cui vogliamo tendere. Credo che nella scrittura teatrale, e in generale in un certo tipo di scrittura che forse ha più a che fare con la poesia che con la narrativa che potremmo definire con una brutta espressione “convenzionale”, ciò che importi sia mostrare, non di-mostrare, colpire al cuore più che descrivere o narrare. Anche nelle pagine di teatro più dolci o toccanti o liriche non c’è mai rassicurazione o compiacimento o voglia di arruffianarsi lo spettatore, c’è anzi tensione, una parola portata al limite della propria capacità di carico e d’espressione.

Il testo “Se tu non avessi un nome” è ispirato ad una storia realmente accaduta. Cosa ti ha colpito e cosa ti ha toccato di questa vicenda?

Potremmo analizzare la vicenda di Joyce da tanti punti di vista: sociologici, psicologici, economici, politici,…Potremmo prendere in considerazione tutti i paradossi generati da una società come quella contemporanea in cui si ha l’illusione di essere vicini per il solo fatto di essere connessi, in cui si confonde serenità con felicità, in cui si pensa di essere consapevoli in quanto bravi a ingurgitare e risputare centinaia di inputs al minuto, quasi fossimo computers o tritarifiuti. In effetti, se andassimo ad indagare nella vita di Joyce, e qualcuno in questi anni ha anche tentato di farlo, potremmo forse scoprire che alcuni dei motivi che hanno portato alla sua fine così tragica e assurda, avevano qualcosa a che fare con molte di queste tematiche. E sarebbe tutto molto interessante, emblematico, sintomatico, perché oltretutto la sua vicenda, benché così assurda e incredibile, non è certo un evento isolato, o casuale, sono episodi che purtroppo nelle città di tutto il mondo capitano sempre più spesso, pur senza forse arrivare ad un limbo di tre anni come è successo a lei.

Quindi dicevo un simbolo, un evento peculiare, una “tempesta perfetta” come la definirebbero alcuni scienziati o giornalisti. Pensate: per tre anni, nessuno ha mai tentato di mettersi in contatto con lei, nessuno si è mai chiesto che fine avesse fatto o perché quella porta rimanesse sempre chiusa. E se l’hanno fatto, sono stati sempre e solo eventi isolati, rarefatti, disconnessi, non si sono mai verificate le condizioni perché un numero sufficiente di domande o dubbi portasse al ritrovamento del suo cadavere.

Ma la di là di tutto questo, al di là delle considerazioni teoriche o scientifiche, c’è una cosa che mi ha sempre colpito della vicenda di Joyce, anzi due. La prima è, se ci pensiamo bene, la facilità con cui in effetti tutto questo potrebbe accadere e sta accadendo e accade continuamente. E non parlo solo della facilità di essere dimenticati da tutti, ma anche e soprattutto della facilità con cui, in certi momenti della vita, ci ritroviamo a camminare sul limite di uno spartiacque senza accorgerci che in effetti si sta muovendo, che scivola a valle facendoci perdere l’orientamento. Magari sentiamo che qualcosa non va, che non siamo soddisfatti, che abbiamo smesso di sognare, ma non abbiamo la forza o il coraggio o la voglia di cambiare direzione, o di chiedere aiuto. E intanto deriviamo, tendiamo a rimandare, a far finta di nulla, a dirci che in fondo non è poi così male, a illuderci che quello che stiamo vivendo non è altro che il risultato di ciò che meritavamo o ciò a cui eravamo destinati. In condizioni normali questo porta ad una vita ridotta a mera sopravvivenza, a un’ombra, un fac-simile. Portando tutto all’estremo, si può anche immaginare una deriva infinita verso l’oblio più totale, verso il buco nero che ha inghiottito Joyce e tutte le storie come la sua.

L’altra è un’immagine, che poi è forse quella da cui sono partito per il monologo. L’immagine di questo corpo dimenticato che giace davanti alla TV ancora accesa, circondato da pacchetti di Natale preparati con cura non si sa per chi. Alcune fonti parlano di scatole piene, altre di scatole vuote, solo carta da regalo e fiocchi colorati. Mi piace pensare a una Joyce che, pur chiusa nel suo mondo ormai ridotto alle dimensioni di un monolocale, pur dimenticata da tutti coloro che l’avevano conosciuta, poco prima di morire ha avuto un pensiero per gli altri, quasi a dire: io non vi ho dimenticata, ci vediamo presto, aspettatemi. Con questo non voglio assolutamente esprimere giudizi, non mi interessa attribuire colpe o puntare l’indice contro qualcuno. Forse addirittura nella mente di Joyce quei regali non erano altro che un modo per ricordare, per tornare a momenti piacevoli passati con qualcuno. È comunque credo il segno di una piccola fiammella rimasta accesa, l’unica forse in questa vicenda dai tanti lati oscuri.

Cosa pensi ci sia da raccontare oggi e quanto il passato ha avuto da dire?

Se per raccontare s’intende “raccontare una storia”, credo che finché ci sarà vita umana sulla Terra, finché ci sarà qualcuno che ascolta (o che guarda, come ci insegna il teatro), la potenza del racconto non andrà mai esaurita. Cambieranno le forme o i mezzi, come sono cambiate in passato, ma il fascino di una storia raccontata intorno al fuoco, al bar, a cena, al cinema, a teatro, sarà superiore a qualsiasi altra forma d’intrattenimento e non solo. Quanto al cosa, bè, credo sia difficile rispondere in poche righe a una domanda del genere…Da una parte mi viene da dire, per citare un famoso incipit: “Tutte le storie sono storie d’amore”, nel senso che ciò che davvero vale la pena d’essere raccontato, a ben vedere, non può che scaturire da forme più o meno derivate d’amore, sia nella loro pienezza e compiutezza che nella più totale assenza, nel vuoto che si spalanca una volta realizzato quanto siamo soli e piccoli e inermi e abbandonati al nostro destino su questo piccoli puntino blu che se ne va a spasso per l’Universo. E magari sono proprio queste le storie più interessanti, quelle che svelano la dicotomia, il contrappunto, l’assurdo, almeno per quel che mi riguarda.

Dall’altra, non possiamo esimerci, non possiamo non raccogliere la sfida che ci si presenta ogni volta che decidiamo di raccontare una storia. In questo la contemporaneità ci viene in aiuto. La società contemporanea, la scienza, i social, le continue occasioni di confronto che vengono offerte agli uomini e alle donne di ogni angolo del mondo per specchiarsi, per riflettere, per meravigliarsi, per combattere sono una fonte inesauribile di spunti per raccontare senza dimostrare, senza ergersi a giudici o giurati, come dicevamo prima.

Per un bravo scrittore la prima regola è: l’astensione dal giudizio. Subito dopo: ama il personaggio tuo come te stesso, fosse anche l’ultimo dei reietti. E qui torniamo forse all’incipit che citavo prima…

Quali emozioni prova nello scrivere?

Il piacere della scoperta, del viaggio dentro se stessi, del ricordo, della nostalgia.Tanto passato, ma anche futuro come conoscenza di sé e degli altri. Il tempo che si annulla e che nello stesso tempo si crea. Il gioco di parole è voluto.

Grazie

Per info evento https://bit.ly/350eiIr

Mari Francesca Stancapiano

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