L’amore raccontato attraverso le forme magiche dell’epistolario, che si rifanno a simbolo e memoria intramontabile di gioie dolori e rimpianti di generazioni passate e presenti "Letter From an Imaginary Man", ultima fatica di Matilde De Feo, regista e videoartista campana, ridà vita al mezzo di comunicazione più vecchio del modo, la lettera. Ed in particolare, la sua forma più alta, le lettere d’amore. Storie straordinarie e a volte strazianti si sfiorano e si raccontano con estrema poesia e malinconia. Immagini parole e personaggi si fondono dando vita ad una memoria collettiva che sotto forma di docufiction, tocca le corde più profonde dell’animo umano.
Incontriamo Matilde De Feo in occasione della presentazione del suo progetto multimediale, Letter from an imaginary man, svoltosi lo scorso 8 gennaio, al cinema Astra di Napoli.
Buongiorno Matilde grazie per aver accettato la nostra intervista. Partiamo con la prima domanda. Da dove nasce la tua ricerca estetica, quando secondo te, un’immagine o una creazione artistica in genere può essere definito atto creativo ed artistico?
Buongiorno a voi. Il mio lavoro multimediale nasce nel 2003, sotto il nome di Mald’è e nasce come progetto che mette in relazione le arti visive e quelle sceniche, quindi è stato un percorso graduale di avvicinamento al video e successivamente al cinema e di conseguenza al docufiction come nel caso di “Letter from an imaginary man”. Principalmente ho un background teatrale, ho studiato teatro, sono un’attrice, mi sono laureata in regia un po’ di anni fa, e quindi ho un percorso teorico per lo più legato alla regia teatrale. Poi questo percorso si è evoluto collaborando fino al 2008 con un film-maker, da lì in poi la mia ricerca si è spostata dal teatro al video, con il video utilizzato come linguaggio, dal video monocanale, fino all’istallazione interattiva cioè il video utilizzato come corpo immateriale da mettere in relazione col corpo reale dell’attore, o ancora spettacoli multimediali con elementi video in scena. Quindi è un percorso legato alle nuove tecnologie che utilizza il video linguaggio come attore principale.
Essendo tu un artista poliedrica fra cinema, teatro, video, fotografia ed altro, qual è la forma di espressione artistica che più senti tua, e nella quale riesci ad esprimerti al meglio?
È difficile rispondere a questa domanda, perché mi interessa la crossmedialità, cioè mi interessa lavorare a cavallo fra i linguaggi. Diciamo che mi interessa tutto nella misura in cui si può riuscire a trovare un proprio linguaggio personale contaminando i vari strumenti di comunicazione. Sicuramente quello che trovo più vicino alla mia sensibilità è il linguaggio visivo, dal video al teatro, lavorando anche sulle performance degli attori.
Quali sono gli artisti/autori che fra cinema letteratura e teatro ti ispirano maggiormente e a cui e da cui ritieni di essere stata influenzata?
Ce ne sono tanti. Da Bergman a Chantal Arkerman fino a Fedrico Fellini e David Lynch. In particolare tutti quegli artisti che lavorano in maniera sensibile con le immagini. Ma più in generale la pittura informale, la musica contemporanea, fino ad arrivare alla letteratura e al cinema di un certo tipo, quindi prendo ispirazione da tutte le forme d’arte.
Parliamo del tuo ultimo lavoro. Dove nasce l’idea di "Letter From an Imaginary Man"? Cosa ti ha ispirato?
Il lavoro nasce alla Casa del Cinema nel 2012, in questo workshop sul documentario partecipato tenuto da Antonietta De Lillo, in quella occasione è nata l’idea di lavorare su un’operazione di ricerca epistolare e legata all’idea di trovare soggetti volontari disposti a leggere le proprie lettere. Abbiamo lanciato un comunicato sul web, questa cosa è cresciuta in maniera quasi imprevedibile, abbiamo ricevuto qualcosa come cento adesioni in due settimane, ed in un anno ho scelto di incontrare i soggetti che mi avevano colpito di più, le storie più belle. Quindi il progetto è nato come ricerca artistica di tipo video performativa, non volevo realizzare un film, poi incontrando le persone ho capito che la lettera era un mezzo, un modo per i soggetti per raccontarsi, un tramite per trasmettere le proprie storie. E quindi ho capito che oltre a leggere la propria lettera questi soggetti potevano anche raccontassi, di conseguenza è nata l’idea di documentare tutta questa operazione d’incontro, che ha dato vita a questo documentario di 40 minuti che ora è in distribuzione.
C’è un motivo particolare per cui hai scelto di utilizzare la docufiction come tipologia di narrazione per Letter From an Imaginary Man"?
La scelta è legata come ti dicevo a questo percorso fatto con Antonietta De Lillo, una regista napoletana, con cui ho collaborato nel suo precedente lavoro intitolato “Il pranzo di Natale” la De Lillo realizza “docufilm partecipati” attraverso la collaborazione di materiale anche di altri Filemaker. Mi era piaciuta molto questa cosa e in particolare l’idea di lavorare sul soggetto volontario, quindi ne attori o ricerche di documentazione, ma semplicemente chiedere alle persone di partecipare, attraverso i propri contenuti a questo lavoro. Quindi alla fine è diventato un lavoro di documentazione del reale che è a metà tra il film, il documentario è l’opera visiva.
Rousseau diceva “Per scrivere una buona lettera d'amore, bisogna iniziare senza sapere cosa si vuole dire e finire senza sapere che cosa si è detto”. Sei d’accordo?
Sono d’accordissimo. Perché dalle intuizioni che avevo avuto e anche dopo questa esperienza, posso affermare che la lettera è legata a degli immaginari, quando scriviamo in realtà abbiamo in mente un soggetto, ma è più un oggetto che non un soggetto. Quindi il soggetto esiste ed è un po’ l’oggetto dei nostri pensieri, dei nostri desideri e del nostro immaginario. Intendo dire non c’è mai una linea precisa, ma è la linea che segue il sentimento, la fantasia. Quindi non ha a che fare con qualcosa di prestabilito ma è molto onirico, a cavallo fra sogno e realtà.
Quali sono state le tue impressioni sulla presentazione “Letter From an Imaginary Man” al cinema Astra di Napoli?
Oltre le mie aspettative, non mi aspettavo questo successo di pubblico. La sala era piena e ancora oggi continuo a ricevere complimenti. Sono felice, perché questo lavoro ha avuto una gestazione molto faticosa, nel senso che si è girato con grande facilità, però abbiamo avuto molti problemi produttivi e post produttivi. Avevo la sensazione che potesse essere un lavoro, che può non piacere alle persone, soprattutto in una città come Napoli, che non sempre accoglie il lavoro di sperimentazione. Sono rimasta molto sorpresa e colpita dall’apertura nei confronti del mediometraggio e anche dall’apertura dei confronti di un nuovo modo di raccontare, che in qualche modo il mio lavoro rappresenta e vuole essere.
Napoli è per eccellenza la città delle contraddizioni, ma anche dell’amore narrato nelle forme più disparate. Qual è il tuo legamene con questa città?
Io in realtà sono casertana, ma vivo da 15 anni a Napoli. Il mio rapporto con questa città è molto conflittuale. Napoli è un magnete, nel senso che io non riesco ad andare via ma chi mi conosce sa che sono dieci anni che dico “me ne voglio andare, me ne voglio andare” perché ho sempre avvertito Napoli come molto legata alla tradizione, ed io invece non sono una tradizionalista, non mi piace la pizza, non mi piace il mandolino, non mi piace pulcinella non amo tutte queste cose. Però riconosco che Napoli ha un fascino ed un magnetismo veramente unico al mondo, sono fortemente attratta, è come una storia d’amore difficile, come quando sei fortemente attratta da un uomo ma non lo ami. Ecco io non amo Napoli, ma sono fortemente attratta e non riesco in qualche modo a tagliare ancora questa relazione così forte.
Nell’era della comunicazione informatica, le interrelazioni personali, anche quelle affettive, sono diventate molto più veloci, spesso a discapito della riflessione. Credi che le lettere d’amore posso essere utilizzate anche dalle future generazioni, o ormai sono reliquie del passato?
Dalla ricerca che ho fatto, che ha un che anche di sociologico, nel mio lavoro come hai potuto vedere ho rappresentato un po’ tutte le generazioni, dal bambino al anziano, ogni soggetto in qualche modo porta una storia legata ad una generazione. Attraverso questo lavoro ho scoperto sorprendentemente che i bambini si scrivono ancora, quindi non penso che la tradizione della carta e la penna scomparirà per lo meno per i prossimi cinquant’anni. Anche perché scrivere è diverso modo di esprimersi, è un rituale diverso, esiste ancora, ed esiste proprio come atto che si consuma non in rete ma nel privato.
Parlando d’amore non possiamo evitare di parlare anche del suo più acerrimo nemico, l’odio. Nel ultimo anno dove il terrore, il fanatismo, la paura generate dall’odio ci raggiungono ogni giorno, parlare d’amore può essere ritenuto un gesto rivoluzionario?
Assolutamente sì. Deve essere un atto rivoluzionario! Questa è una cosa che diceva anche Pasolini e altri grandissimi poeti. Parlare d’amore deve essere un atto rivoluzionario, soprattutto in un momento come questo dove appunto non c’è né. Io ho cercato di parlarne in maniera assolutamente trasversale ed ironica e penso che questa sia un po’ la chiave, con tenerezza ma anche con un po’ di cinismo, rappresentando anche il conflitto tipico dei sentimenti, dell’amore.
Ho trovato molto interessante l’idea di trovare fondi per la distribuzione del mediometraggio attraverso la piattaforma di crowfunding Indiegogo, pensi che sia la strada giusta per dare l’opportunità agli artisti di esprimersi liberamente o lo vedi solo come un ripiego all’attuale crisi della produzione cinematografica d’autore?
Io penso che il web sia il futuro, questo lavoro è nato sul web, ed aveva senso che ci ritornasse. Quindi una volta finito il lavoro l’abbiamo rilanciato sul web, con un’operazione di crowfunding con dei buoni risultati, non ottimi perché non siamo riusciti a ottenere la somma sperata, ma abbiamo raccolto quanto ci permetterà nei prossimi mesi comunque di distribuire il lavoro. Penso che il web sia il futuro anche perché in questo momento il cinema ha bisogno di nuovi modi di produzione e distribuzione e sicuramente il web in questo momento è il canale preferenziale. Credo che in Italia non ci sia ancora una vera cultura del crowfunding, come invece succede all’estero ed in particolare negli Stati uniti dove ormai è diffusissimo. In Italia è ancora visto come uno strumento assistenziale, come a dire “dai aiutiamo queste persone” ma in realtà attraverso il crowfunding abbiamo creato e venduto anche oggetti come dvd, lettere, cartoline. Quindi questo strumento può diventare anche uno strumento di merchandising, che però ti permette anche di completare la tua opera.
Negli ultimi anni il cinema italiano è conosciuto dal grande pubblico soprattutto, per le commedie, come quella per fare un esempio, dell’ultimo successo di Checco Zalone, che puntualmente sbancano il botteghino. Cosa ne pensi di questo tipo di cinema?
Io in realtà non l’ho visto il film di Zalone, l’ha visto mia madre a cui è piaciuto molto, e la cosa mi è sembrata assurda perché mia madre è un ex professoressa di latino. Non voglio fare l’autrice che è contro questi fenomeni commerciali, io penso che alla fine esiste anche questo. Forse è triste che si parli solo di questo, è triste che il pubblico deve essere spinto verso questo tipo di cinema. Ecco, se parla troppo. Che male c’è che un film del genere porti le persone al cinema? Però parchè parlarne tanto? Si dovrebbe dare spazio anche ad altro e quindi cercare di educare lo spettatore ad un altro sguardo. Esiste Zalone ma esiste anche tanto altro, che meriterebbe di essere conosciuto.
Credi che il cinema italiano oggi abbia concretamente la possibilità di esprimersi fuori da questi canoni o il pubblico non è più abituato ad un cinema d’autore?
Perché no, il mio lavoro può essere un esempio, venerdì alla proiezione del mio film a Napoli, senza una grandissima pubblicità, senza avere una distribuzione e nonostante ciò la sala era piena, quindi non è vero che le persone non vogliono non vogliono vedere un altro tipo di cinema, il problema è che non vengono in qualche modo invogliate. Penso semplicemente che il cinema d’autore dovrebbe essere sostenuto da chi può, e quindi dai produttori, dai finanziatori in genere. Il problema è produttivo non è culturale su questo sono ottimista. Sono meno ottimista invece sulla condizione politica, mi riferisco a come vengono gestiti i fondi, perché purtroppo per fare le cose ci vogliono i soldi, e se le scelte sono sbagliate è normale che poi vengano diffusi dei prodotti piuttosto che altri.
Qual è il tuo rapporto con la televisione? Quali sono i programmi sui quali ti soffermi?
Il mio rapporto con la televisione è drammatico, perché non l’accendo dal 2004. Mio padre mi regalò una TV un paio di anni fa, ma io non so neanche accenderla. Te lo giuro! Ma non c’è una motivazione ideologica, semplicemente non mi serve, perché solitamente tutto quello di cui ho bisogno è sul web. Le notizie ormai le leggo su internet, i film li vedo in streaming e quindi in sostanza il mio rapporto con la televisione non esiste. Però penso che tutto sommato è una cosa che devo recuperare, perché vedi anche lì, non penso che sia tutta spazzatura. Ho tanti amici che ci lavorano e sono persone veramente in gamba e preparate. Ma alla fine anche lì, come nel cinema, vale sempre la regola del come e cosa si fa. Credo la televisione non sia un mezzo che debba essere demonizzato a prescindere, ma è sempre tutto legato a delle scelte editoriali che si fanno.
Un libro, un film e un album che ti sentiresti di consigliare ai nostri lettori…
E’ difficile perché ce ne sono tanti. Dunque un libro, sicuramente quello di Bill Viola che si intitola “Vedere con la mente e con il cuore” è l’opera di questo videoartista di fama mondiale, che utilizza appunto il video come linguaggio in maniera molto sensibile, molto spirituale. Di album ce ne sono tanti, adesso mi vengono in mente tutti quelli di David Bowie, che non c’è più, ma che merita davvero di essere ascoltato. Quindi più che un solo album, direi tutta la discografia di David Bowie. Per me è un mito. Per i film, anche qui la lista sarebbe interminabile, questa è la domanda della vita, aspetti sempre che te la facciano, e poi risulta difficile rispondere. Ma forse d’istinto direi “Giulietta degli spiriti” di Federico Fellini, un film indimenticabile, ecco, quello lo rivedrei sempre, perché è pieno d’ispirazioni, per me è un film stupendo.
Vedo che sei molto legata alla figura di David Bowie, come l’hai presa la sua prematura dipartita?
Sì per me è quasi come un Dio, secondo me è veramente l’ultimo dei grandi. Un genio assoluto. Ormai non c’è ne sono più di grandissimi come lui. A te viene in mente qualcun altro?
Dopo aver ottenuto successo di critica e pubblico con "Letter From an Imaginary Man", ricordiamo fra i tanti la partecipazione al Festival del film di Roma e al Short film Corner Festival di Cannes. Quali sono i tuoi progetti artisti per il 2016?
Per il 2016 ho scritto diversi progetti nuovi e di alcuni per riservatezza non posso dire molto. Visto anche che in questo momento siamo in fase di reperimento fondi. Un progetto che sto scrivendo è sul concetto di città metropolitana, legato a Napoli, in particolare sul fatto che non esisterà più la provincia, che è stata inglobata in un'unica grande città. Comunque in genere i miei lavori sono sempre dei lavori crossmediali, con un lavoro di ricerca e di documentazione su un tema e sul coinvolgimento di soggetti volontari per trasformare queste storie in immagini.
Gennaro Nocera
© Riproduzione riservata