Incontriamo e ci confrontiamo, oggi, con Emanuela Bonavolta, architetto e educatrice, da molti anni impegnata in Mozambico, nella provincia di Tete, per la promozione di progetti di sviluppo locale, prima come tesoriere e responsabile dell’Associazione O Vivero a Chitima, ora come coordinatrice dell’Associazione Dignity – No Profit People Onlus, a Matambo. www.dignitypeople.eu
Emanuela, in virtù della tua esperienza di progetti di cooperazione in paesi in via di sviluppo, ti possiamo chiedere qual è stata la tua reazione alla notizia della morte di Luca Attanasio?
Ho provato, come tutti, una profonda tristezza. Per lui, per Vittorio Iacovacci, per il loro autista, per le persone che sono rimaste ferite nell’attacco. Ho pensato immediatamente alla famiglia di Luca, alle sue tre figlie piccole. Immagino anche la paura per l’imboscata, per essersi trovati improvvisamente di fronte ad un commando armato. Tutta questa violenza contrasta con le bellissime immagini dell’Ambasciatore circondato dai bambini locali e con i numerosi impegni di solidarietà e aiuto alla popolazione che stava portando avanti. Sinceramente non conosco bene la situazione della Repubblica Democratica del Congo e mi sembra che la matrice dell’attacco non sia ancora chiarissima. Mi è dispiaciuto apprendere che il convoglio dell’ONU viaggiasse senza scorta.
A questo proposito, è stato dichiarato dal WFP che la strada sulla quale viaggiava il convoglio fosse ritenuta “sicura”. Che ne pensi di questa affermazione?
La mia esperienza di missione e cooperazione si è sempre svolta in Mozambico. Ho viaggiato e soggiornato spesso nel Paese, anche in momenti difficili, rischiosi. I trasferimenti in macchina mi hanno fatto stare sempre con il “fiato sospeso”, come si dice. Non solo per la condizione pessima delle strade locali e per la pericolosità con la quale vengono spesso condotti camion e altri veicoli, ma soprattutto perché mi rendevo perfettamente conto che non esiste mai una situazione sicura al cento per cento. Lo stesso personale locale con il quale viaggiavo, ha sempre avuto un’attenzione particolare nel trasportare una persona straniera; il pericolo di rapimenti o di azioni violente esiste sempre.
Si tratta del primo Ambasciatore italiano ucciso in servizio nella storia della nostra diplomazia.
Ho letto una sua frase, detta in occasione del Premio Nassirya per la Pace 2020: “ Quella dell’Ambasciatore è una missione, a volte anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l’esempio”. Parole molto vere, che sento molto “mie”. Quando vai in missione, senti che effettivamente è proprio quello il tuo posto, che puoi fare tanto, soprattutto in contesti di grande povertà. Questa consapevolezza ti fa affrontare tutto, anche i pericoli, con una inspiegabile forza e serenità. Ho letto la biografica di Luca Attanasio, il suo impegno costante nel volontariato, nel sociale. In Congo, con la moglie, stavano portando avanti la realizzazione di una casa per i bambini di strada, grazie ai fondi ricevuti dalla Conferenza Episcopale Italiana. Spero sinceramente che l’opera vada avanti, per dimostrare ancora una volta e ancora di più che il bene è sempre più forte del male. L’ultima parola non spetta alla violenza, ma alle immagini di quei sorrisi di Luca e dei “suoi” bambini che guardano, insieme, ad un futuro diverso, pieno di pace e di speranza.
Stefano Cigana
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