Verrebbe da pensare “Attenti a quei due” considerando il sodalizio artistico nato fra lo scrittore Antonio Mocciola e il regista Marco Prato che stanno portando in lungo e largo per i teatri dello Stivale una serie di spettacoli teatrali che riescono sempre ad avere un ottimo riscontro da parte del pubblico. E questa volta si sono fermati all’Artemia di via Amilcare Cucchini a Roma, un Centro Culturale ideato e curato da Maria Paola Canepa con l’intento di creare uno spazio dove la cultura, l’arte e la creatività possano sostentare l’animo e lo spirito di chi voglia avvicinarsi.
Ad andare in scena per la prima volta "L'ultimo minatore" con cui Mocciola affronta il tema delicato di quegli uomini, donne e bambini che in Sardegna, in un contesto da illusione industriale in zone dove il lavoro è sembrato sempre una manna dal cielo, furono mandati a scavare carbone a mani nude in miniera senza nessun rispetto per la loro salute fisica e mentale. Una condizione che sul palco viene rappresentata da quello che è poco più di un ragazzo del sud attratto anche lui dalla possibilità di un guadagno senza immaginare quanto potesse essere duro conquistarlo.
L’interprete è stato l’esordiente, come protagonista, Alessandro Berlino, bravo nel rendere un personaggio con una grande forza di volontà perso nel sogno che quel lavoro, sia pure disumano, lo potrà ricongiungere alla sua bella lasciata in provincia di Napoli. E l’illusione diventa ancora più grande quando immagina di potere emigrare nella parte settentrionale dell’isola dove il “Principe”, chiaro riferimento all'Aga Khan, stava per compiere un’opera altrettanto disumana come la cementificazione delle coste. La recita lo impegna completamente nudo proprio come erano costretti i minatori per la paura che gli abiti potessero prendere fuoco, tuttavia a coprirlo sono alcuni strati di pellicola trasparente come una pelle destinata comunque a bruciarsi generando sofferenze non solo esteriori ma anche e, soprattutto, interiori.
Assolutamente geniale la scena che rende duplice l’attore grazie alla presenza di un manichino così come di grande effetto rimane l’ambiente in pochi elementi capaci comunque di caratterizzare un luogo non solo nelle sue caratteristiche intrinseche ma anche nella sofferenza che poteva generare. Complici anche le luci di Alessandro Di Lorenzo rese ancora più suggestive dagli effetti sonori che hanno simboleggiato l’esplosione delle mine. E quella plastica trasparente durante tutta la rappresentazione si riduce sempre di più fino ad essere strappata del tutto fra strazianti grida di dolore. E’ forse la rassegnazione a una vita che non si voleva o una fine più drastica con la cessazione di tutte le sofferenze raggiungendo quell’Eden costruito da un principe vero. Di certo, Antonio Mocciola, così come ormai ci ha abituati, affronta con intelligenza un altro tema importante della nostra storia di cui non sempre si può andare fieri.
Come affermato dallo stesso scrittore “Ho voluto fare riemergere la vicenda delle miniere del Sulcis, nel sud della Sardegna, attraverso un piccolo incubo di un giovane minatore che rimane da solo nelle viscere della terra, vittima incolpevole di un clamoroso abbaglio politico”. Per il regista Prato, invece, “la miniera è la metafora di una discesa all’inferno e il nostro minatore è un fantasma che parla circondato da altri fantasmi. Intorno è solo tenebre e carbone, l’unica luce esterna si restringe fino a inghiottire il protagonista. La miniera è la caverna della mente dove i sogni si cristallizzano nei polmoni dei lavoratori, sotto forma di silicosi”.
Prossimi appuntamenti romani per Mocciola, il 13 marzo al Teatro Due con “Io non sono granoturco” e il 3, 4 e 5 aprile al Teatro Artemia con “ “Padre Eterno”.
Rosario Schibeci
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