Al Parioli di Roma “Le Variazioni Enigmatiche” illuminate dai talenti cristallini di Mauri, Sturno e Tarasco
Ha debuttato martedì 8 marzo e rimarrà in scena fino ad oggi domenica 13, con la replica pomeridiana delle ore 17, presso il Teatro Parioli di Roma, lo spettacolo “Variazioni Enigmatiche” di Eric-Emmanuel Schmitt, diretto da Matteo Tarasco, tradotto e adattato da Glauco Mauro ed interpretato da Glauco Mauri e Roberto Sturno.
Si rischia sempre di essere un po’ retorici e poco concreti quando, andando a Teatro, ci si imbatte in uno spettacolo che vede in scena due esseri umani che hanno letteralmente dedicato la loro vita al mezzo in questione.
Magari si può pensare che due con diverse decadi di lavoro ed esperienza “sul groppone” possano anche aver fatto il loro tempo o magari, da neofiti, quale lo scrivente si ritiene ancora nonostante i quasi dieci anni di studi “specifici” nel proprio personale curriculum, si può rimanere ancorati alla propria poltroncina mangiando con gli occhi e assorbendo con le orecchie la masterclass alla quale si è avuta l’occasione di partecipare.
Il termine “masterclass” è usato in questo caso per trovare qualcosa che definisca al meglio e diversamente dal solito l’evento in questione dato che da quando di Teatro se ne è cominciato a vedere un po’ (ma non ancora abbastanza, di certo) le occasioni di sorpresa e meraviglia diminuiscono in maniera inversamente proporzionale alle uscite di casa e che poche sono le volte che si può rubricare l’esperienza di una sera alla voce “fortuna e gratitudine”.
Glauco Mauri e Roberto Sturno, attori che fanno delle parole, dei corpi, delle voci, dei cuori e delle loro intelligenze strumenti splendidi e umili, con la direzione di un Matteo Tarasco del quale si evince- senza difficoltà alcuna- la classe nel dirigere i due oltre che nel creare le condizioni necessarie all’interno delle quali la storia – lunga ed impegnativa- sboccerà senza apparenti intralci, danno vita ad un lavoro che può tranquillamente essere definito come “un placido esempio di regalità teatrale”.
Due atti per una durata complessiva di 105 minuti in cui i due attori, i due uomini e i due personaggi si sfidano- dapprima-, si confrontano, si scoprono e si affidano.
La drammaturgia di quello che- leggo nel comunicato stampa di presentazione dello spettacolo- è il drammaturgo in lingua francese più rappresentato al mondo, racconta la storia di tre vite (almeno) indissolubilmente legate tra loro anche quando questa indissolubilità non è né chiaramente evidente né tantomeno conosciuta o addirittura conoscibile.
Ma il testo racconta anche le insicurezze e la costante precarietà di esistenze che non possono dirsi risolte mai, neanche quando si crede di aver coronato i propri sogni, professionali, economici o amorosi che siano.
Ricco di colpi di scena che l’ensemble responsabile della messa in scena gestisce con una grazia difficile da trovare in tempi in cui tutto è preceduto da codici banali e vetusti che hanno la triste funzione di anticipare (o spoilerare direbbero i giovani d’oggi) decisivi turning point, il materiale drammaturgico, forte ed intelligente, viene trattato con rispettosa cura.
Il lungo dialogo non sdilinquisce mai nelle intenzioni degli attori che viaggiano sicuri e fermi per tutto lo snodarsi dello stesso.
Passando dalla paura, all’arroganza, al dolore per poi giungere all’accettazione, i toni si mantengono organici, per restituire al pubblico la sensazione che la selvaggia isola all’interno della quale sta il bel salotto in cui il tutto è ambientato, sia in realtà più ina condizione delle anime nostre tutte che non in effetti un luogo del quale ci importerebbe davvero conoscere l’esistenza geografica.
In poche parole, si è assistito alla Champions League del Teatro.
Giuseppe Menzo.
© Riproduzione riservata