Andrea Guglielmino

Dal cinema al fumetto

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Ore 11 circa. 11.05 perché sono in ritardo; lui è già lì che mi aspetta, in anticipo (da vero gentleman); l’appuntamento è dal (mitico) Meo Pinelli, in zona Cinecittà, ma lui mi aspetta fuori perché “è una bella giornata di sole”. Non lo riconosco subito: l’ho già intervistato qualche mese fa, ma soltanto via social, quindi è la prima volta che lo vedo “live”; capelli corti, orecchino, zaino in spalla, dimostra -come quasi tutti gli autori di fumetti che ho conosciuto sino ad ora- almeno dieci anni in meno di quelli che ha (e, da gentildonna, è una informazione che non condividerò). Andrea Guglielmino, “nato” giornalista e divenuto autore di fumetti, o sceneggiatore di comics, o “fumettaro”, in termini più volgari (dove per volgari si intende quel vulgus che nel nostro “latinorum” vuole dire: parla come magni!).

Comunque, ci sediamo per un caffè (lui lo prende americano, io sono sempre affezionata al nostro locale “schiumato”, che in territorio anglofono, quale che esso sia, si tramuta inevitabilmente in una insolita brodaglia, ma che qui ti dà modo di consumare la schiumetta zuccherosa col cucchiaino quando hai finito di immagazzinare la caffeina ed accendere il cervello; e, una volta acceso, parto a raffica con le domande.

Andrea Guglielmino (cito qui letteralmente la sua presentazione online) si autodefinisce non scrittore ma ‘scrivente’. Spazia dalla saggistica alla narrativa, dal giornalismo alla critica cinematografica passando per le vignette umoristiche, l’illustrazione per l’infanzia, la letteratura ‘breve’ e le sceneggiature per fumetti.

Ha coniato inoltre un interessante neo-logismo: antropocinema, che è poi anche il titolo di una delle sue pubblicazioni, nella quale coniuga cinema e antropologia, un connubio più volte tentato, ma spesso con scarso successo.

Andrea, Che cosa si intende -o meglio intendi- per antropocinema?

La parola è una crasi tra i termini ‘antropologia’ e ‘cinema’ ed era anche il titolo del mio primo libro di antropologia del cinema, quindi il significato è meno recondito di quanto si possa immaginare. Poi, dato che ha funzionato, l’ho usato anche per i vari spin-off di cui questo, dopo ‘Star Wars – Il mito dai mille volti’, rappresenta il secondo. E’ una disciplina poco gettonata in ambito universitario perché si tende a pensare al cinema come ‘mitologia di serie B’, dato che nasce per finalità parzialmente legate all’economia, ma in fondo, tutti i miti sono legati a un aspetto economico. I miti delle popolazioni di interesse folklorico, o i miti classici, ad esempio, erano legati ai cicli del sole e dunque alla produzione agricola. Pensiamo ai miti di Quetzalcoatl presso gli aztechi o alle figure di Demetra e Kore nel pantheon greco… si trattava di alimentazione e cibo, e quindi di economia. Io penso che fatte le dovute differenze anche il mito cinematografico possa dire molto della società che lo produce e soprattutto del gruppo sociale che lo riceve: il pubblico, che poi è il mio campo di azione e differenze. Col metodo comparativo, esattamente come fanno antropologi e storici delle religioni, metto a paragone le differenti versioni di un mito – pensiamo a quante varianti nel cinema pop, tra sequel, remake e reboot – e individuate le differenze sostanziali cerco di capire cosa significano in campo antropologico e sociale.

Ed è a questo punto che Andrea pone -letteralmente eppure non meno letterariamente- le “carte sul tavolo”; ovvero sia, con un gesto che appare del tutto affine a quelli dei tipici action movie, in cui un personaggio (solitamente un mentore) pone la sua ventiquattrore sul tavolo, Guglielmino ci appoggia il suo misterioso zainetto nero, tirando fuori libri e fumetti. Sono i titoli da lui firmati; me ne porge subito uno, come Morpheus che proge a Neo la pillola blu e la pillola rossa. Ed è proprio blu con i caratteri rossi il libretto che mi sta porgendo, dal titolo: TERMINATOR: IL TEMPO è UNA MACCHINA.

Ammetto di non essere una grande fan del genere, quindi temo di aver forse arricciato inavvertitamente il naso. Lui forse se ne accorge perché comincia a raccontarmi del libro in questione, spiegandomi di che si tratta.

Qui Andrea Guglielmino torna a parlare di cinema e di antropologia di miti contemporanei e archetipi ancestrali, e stavolta lo fa concentrandosi sul ciclo di Terminator che, avviato nel 1984 si è fatto ben presto cult. E quegli stessi cult li incontriamo noi tutti, fruitori, autori e appassionati di comics, che alle fiere ritroviamo (spesso anche nei panni dei cosplayers) anche i protagonisti dei grandi cult del passato, dai Ghostbusters a Doc e Marty, per arrivare anche ai cyber uomini e cyber donne, robot e uomini meccanizzati. Per questo mi chiedo: cosa unirà questo tipo di personaggio all’universo NERD? Questa domanda mentale la riporto a lui così:

Perché a tuo parere Terminator è un cult e quali sono le similitudini che lo rendono parte di quella rosa di film che sono considerati “roba da nerd”?

Le similitudini stanno semplicemente negli argomenti. Cameron pesca da un immaginario comune: l’action, l’horror, la sci-fi e lo ripropone in una modalità per i suoi tempi nuova e mai vista. Ma le similitudini, da antropologo, le trovo poco interessanti. Per metodo, a me interessano le differenze sostanziali, ed è qui che si individuano i motivi per cui Terminator, almeno all’origine del suo percorso – i primi due film – si afferma come cult. In primis, l’afflato tragico. Sarah Connor è un’autentica versione moderna di Cassandra: predice guerre e sventure, nel tentativo di sventarle, ma nessuno le crede. E probabilmente sventarle non è possibile. Nel concetto originario di loop temporale qualsiasi cosa si faccia intervenendo sul passato non fa che confermare il corso della storia, nefasto per l’umanità. Solo alla fine del secondo film si spezza questa consapevolezza, ma attenzione. Non è certo che Sarah e John abbiano sventato il giorno del giudizio. Solo, hanno messo le cose in modo che non debbano necessariamente essere sicuri che accada. E’ la loro percezione del futuro che si fa un po’ meno fosca, non il futuro in sé. Questo significa che non esiste libero arbitrio, ovvero la scelta tra bene e male che di solito nelle storie classiche che sono alla base della “roba da nerd” sono abbastanza tagliati con l’accetta. E’ chiaro chi sia l’avversario ne ‘Il signore degli Anelli’ o in ‘Star Wars’ mentre in Terminator si combatte contro un sistema e un destino. Il cyborg ne è solo un’incarnazione – per questo è simbolicamente strutturale che sia ricoperto di carne – e il suo incessante ritornare anche quando più volte sembra soccombere significa proprio questo. Non si può combattere il futuro, dovrà comunque esistere e avverarsi, in un modo o nell’altro. Si può dimenticare il passato ma non pre-dimenticare il futuro che deve ancora avvenire. E poi c’è questa concezione assolutamente avanti del tempo come “macchina” da riavviare, anni prima che i iniziasse a utilizzare il termine ‘reboot’ che è di matrice informatica. Esattamente come quando un computer non funziona più si cerca il ‘punto di ripristino’, cioè la fotografia di un momento temporale in cui il sistema non dava problemi, Skynet cercando di modificare il passato cerca il ‘punto di ripristino’ della sua linea temporale, dimostrando, essendo una macchina, di concepire il tempo come una macchina, di qui il sottotitolo del saggio.

Macchina VERSUS uomo. Uomini robotici. Realtà o finzione?

Realtà, a un livello molto più contemporaneo e semplice di come possiamo immaginare. Siamo già dei cyborg. Viviamo in simbiosi con i nostri computer e cellulari, e se si rompono, ci sentiamo persi, come se avessimo perso una parte di noi. Siamo ormai costituiti anche da dati, e la saga di Terminator è sensibile a questa variazione. Se all’inizio della saga, negli anni ’80, uomini e macchine erano su fronti contrapposti e le macchine potevano al massimo ‘imitare’ l’uomo, restando comunque macchine camuffate grazie a una pelle e un sistema di muscolature sintetici, da Terminator Salvation in poi – senza contare fumetti, videogiochi e romanzi di cui parlo nel libro perché è una trattazione sul mito a 360° - cominciamo a veder apparire uomini ibridati con le macchine come Marcus, che muore nel braccio della morte donando il suo corpo alla scienza e rinasce con parti robotiche. Lo stesso John Connor, leader della resistenza umana, in Terminator: Genisys si trasforma in una macchina, e nei fumetti, trasferita la sua coscienza in un Terminator, diventa colui che salva sì l’umanità, ma anche le macchine, attraverso un trattato di pace. Parla con Skynet e gli dice “per fronteggiarci siamo diventati sempre più simili gli uni agli altri, proviamo a collaborare”.

Terminator e RoboCop piuttosto che War Machine o Iron Man. Quali le similitudini e quali le differenze tra gli eroi del cinema e quelli dei comic, e quali le analogie nel trasporre su schermo i personaggi cartacei del fumetto nel genere cinecomic?

Ormai i confini sono labili, perché come tu stessa anticipi i personaggi del cinema diventano spesso personaggi dei fumetti e vice versa. A Terminator sono dedicati molti fumetti, alcuni davvero interessanti, di cui parlo approfonditamente nel saggio. RoboCop si è scontrato con Terminator proprio nei fumetti, e il tema era quello di cui parlavamo sopra: che RoboCop è comunque un essere umano ibridato con una macchina, mantiene una certa coscienza anche se fatica con i ricordi, mentre Terminator e Skynet sono macchine pure, anche se hanno una forma umana. Iron Man e War Machine invece sono semplicemente uomini molto preparati e intelligenti che sanno usare a proprio vantaggio armature e tecnologia. Per certi versi sono ‘ibridi’ anche loro, ma nascono in un momento storico in cui ancora non c’era la rete e dunque la tecnologia diventava, come nel più classico degli schemi, una doppia identità. Quando Iron Man non indossava l’armatura era “solo” un miliardario, playboy, filantropo. Nei cinecomic e nei fumetti più recenti invece si porta l’armatura sempre addosso grazie alla nanotecnologia, per cui potrebbe essere più assimilabile a un cyborg, oltretutto ha un cuore artificiale, quindi da questo punto di vista ci può essere una correlazione. In generale, le trasposizioni dei personaggi del cinema nei fumetti sono più interessanti di quelle dei personaggi dei fumetti al cinema. Nel primo caso è tuto materiale in più che si rivolge a persone che sono già fan del franchise, lo conoscono e possono permettersi di approfondirlo in maniere proficua, mentre i cinecomic hanno il problema di dover fare molti soldi in poco tempo, anche perché costano tanto, e quindi devono conquistare un’ampia fascia di pubblico finendo spesso per risultare polpettoni un po’ insipidi dove c’è tutto: le battute un po’ puerili per l’infanzia, gli attori sexy per le ragazze, le botte per i ragazzi – che curiosamente come pubblico sono poco attratti dalla presenza di attrici sexy, rivolgendosi più spesso al porno per questo genere di esigenze – magari qualche presenza dal passato per le mamme e le nonne, come Michael Douglas in Ant-Man o Robert Redford in Captain America. Un lettore di fumetti li trova spesso deludenti, anche se qualcuno fa eccezione, soprattutto quando si chiama in causa un autore e gli si lascia fare il suo lavoro senza troppe ingerenze da parte degli Studios. Ma i fumetti, in generale, sono una forma espressiva più libera e un po’ meno sottostante alle esigenze del business puro. Non che ne siano esenti, anche quelli devono vendere, ma girando meno soldi le direttive sono più generiche e meno stringenti.

A questo punto il tempo (che per Guglielmino è una macchina) stringe, e ci salutiamo; mi lascia con in bocca il sapore della schiuma di caffè e con quello, ancor più piacevole forse, di una pillola blu e rossa che mi strizza l’occhio tramite la copertina del volume che tengo tra le mani, e mi promette di raccontarmi un nuovo universo, perché in ogni libro c’è dentro un piccolo universo.

Chiara Alivernini

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