Due serata praticamente sold out alla Bottega degli artisti di Via degli Scipioni che presentava il monologo dell’attrice romana Jessica Ferro “Non chiamarmi Joan Crawford” di Antonio Mocciola, con la regia di Francesca Bruni.
Un atto unico intenso, in alcuni tratti estremamente coinvolgente e drammatico che mette a nudo la grande personalità e le grandi contraddizioni della vita della Crawford diva del cinema americano dagli anni venti ai quaranta.
Complice anche la struttura della Bottega degli Artisti, lo spettacolo ha una dimensione intima, quasi privata, per i fortunati spettatori, che sono a cospetto di una Joan Crawford/Jessica Ferro nell’intimità della sua camera da letto, dove ha deciso di barricarsi per ascoltare alla radio la proclamazione dell’assegnazione dell’Oscar alla miglior attrice protagonista.
La regista ha voluto accendere un “occhio di bue”, grazie all’interpretazione capillare di Jessica Ferro proprio alla Notte degli Oscar del 1946, quando l’attrice era nominata alla preziosa statuetta come attrice protagonista per il film “Mildred Pierce” (Il romanzo di Mildred), insieme ad attrici del calibro di Greer Garson (già vincitrice dell’Oscar nel 1943 per La signora Miniver) e dell’attrice rivelazione Ingrid Bergman (vincitrice l’anno precedente con il film “Angoscia”).
In un atto estremo in bilico tra terrore e vigliaccheria, Joan Crawford decide di non partecipare alla cerimonia degli Oscar, dichiarando di essere malata, addirittura di avere un principio di polmonite.
L’atto unico parte da questo, dalla riflessione di non sentirsi all’altezza, dalla paura di perdere e dalla certezza ormai di essere troppo vecchia e troppo odiata per poter vincere qualsiasi cosa.
Jessica Ferro interpreta con una presenza scenica non indifferente e una mimica perfetta, aiutata anche da un sublime abito di scena, realizzato dal costumista Gregorio Maria Mattei, e da un trucco e parrucco perfetto di Valentina Mori, che ci riportano ai fasti degli anni ’40, le ore che separano la Crawford dalla proclamazione come miglior attrice protagonista nella notte egli Oscar.
Un’attesa che scatena un turbine di sentimenti contrastanti tra gioia ed estremo dolore, tra felicità e furia cieca, stagliandosi contro l’unica presenza scenica: la bambola che impersona la figlia Christina, succube innocente di una madre violenta e alcolizzata, assolutamente borderline.
L’attrice si lancia nei racconti della sua adolescenza, fatta di violenza e privazioni, con la passione per la danza quando ancora si chiamava Lucille Fay LeSueur, fino ad arrivare a teatro, al cinema. Una donna non bella che ha fatto delle sue imperfezioni la sua forza scenica ed attoriale.
Sapendo perfettamente di essere odiata dai produttori, dalle colleghe, perché ritenuta problematica, e per aver usate delle scorciatoie in gioventù, a detta delle invidiose colleghe e dai produttori.
Il quadro che ne viene fuori, è la realtà dei fatti, triste cruda, di una donna combattuta nel suo io più profondo, tanto da non voler ammettere di essere in tutto e per tutto una diva. Dai successi sul lavoro agli insuccessi personali, privati, di famiglia, dai mille uomini sbagliati.
Una vita di contraddizioni che la Croawford “vomita” sul palco per tentare di dare un significato alla sua voluta defezione alla serata.
Torturandosi dal punto di vista psicologico e fisico fino a diventare una maschera inquietante della splendida attrice pronta a ritirare la statuetta dorata.
Un excursus nella sua vita, nella sua anima, nelle sue ombre e nei suoi “scheletri nell’armadio” che è magistralmente interpretata e messa in scena da Jessica Ferro, grazie ad una regia chirurgica di Francesca Bruni studiata a 360° gradi, nella quale anche la scenografia ha una parte determinante, soprattutto l’enorme specchio che troneggia sul palco.
La radio proclama la vittoria di Joan Crawford come miglior attrice protagonista, è come se la diva riprendesse in mano la sua vita, trucco e parrucco ravvivati ed è subito pronta per il bagno di folla, di fotografi, di interviste.
Una prova di bravura quella di Jessica Ferro, sul testo non facile di Antonio Mocciola, che regala sempre certezze sulla qualità dello spettacolo, per una location inusuale per una pièce teatrale, che ha regalato un’ora di interpretazione che colpisce l’animo e il cuore dello spettatore.
Articolo di Stefania Vaghi
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