La scena si apre in mezzo al campo di battaglia, dove come avvoltoi le tre streghe, emanazioni di Ecate (la Fanciulla, la Madre e la Vecchia) si muovono tra i cadaveri dei soldati, raccogliendo morte e seminando presagi di gloria: nella nebbia, Banquo e Macbeth sono i soli testimoni di profezie che azioneranno le fila del destino, e tireranno fuori i desideri più oscuri di quest’ultimo.
«Salve, Macbeth! salve a te, Barone di Glamis! Salve, Macbeth! salve a te, Barone di Cawdor! Salve, Macbeth! salve a te, che sarai Re».
Così la triplice emanazione del femminino saluta il nostro eroe, reduce della propria vittoria in guerra. Da questo momento in poi, anche noi spettatori vedremo la realtà attraverso gli stessi occhi del protagonista, tra incubo ed allucinazione, ambizione e colpa.
Al fianco del protagonista, la Lady (interpretata in modo sublime da Melania Giglio) diviene la voce che sussurrerà incessantemente a Macbeth di corrompere il proprio cuore sin “troppo bianco” con l’azione, di non cedere alla seduzione dell’innocenza ma piuttosto rispettare la legge di natura, una legge atavica secondo la quale il predatore non può che banchettare sulla salma del vecchio re, mangiandone il cuore e poi lanciando avanzi ai nobili, che come cani sono sempre pronti ad accucciarsi al fianco di chiunque si proclami loro padrone.
La messa in scena orchestrata da Salvo, che parte dal palco nudo -nel pieno rispetto della ricostruzione dell’epoca shakespeariana – e sfocia del dark-gotico, vede al suo interno elementi sacri e profani che si incontrano e spesso si scontrano, che costruiscono quadri e regalano suggestioni.
E mentre il bianco re spezza il pane in quella che più che una cena appare come un rito, con un suono di vetro infranto Macbeth spezza la quarta parete, fiondandosi in proscenio per raccontare al pubblico il proprio monologo, subito seguito dalla Lady che lo sprona a compiere quel gesto che sembra ormai più che urgente… inevitabile, e che noi spettatori a questo punto siamo arrivati a desiderare altrettanto ardentemente.
Viene dunque la notte, e tutto si compie. Le mani di Macbeth e Lady si macchiano di sangue, la scena si macchia di rosso a partire dagli ornamenti dei due abiti dei protagonisti. La salita al trono di Macbeth appare più come un funerale che una festa (del resto, parafrasando Amleto, gli arrosti del banchetto funerario son serviti a guarnire, ancora caldi, la tavolata di quello dell’incoronazione. Di qui in poi, saranno le tre Sorelle, come le Parche, a tirare le fila di ciò che inevitabilmente accadrà.
E tutti, dagli attori sul palco a noi che guardiamo, siamo invitati di questa lugubre tavolata, in un succedersi di scene dalle quali il pubblico, altrettanto inevitabilmente, rimane coinvolto, trattenendo il fiato per quasi tre ore di messa in scena, senza battere ciglio, conquistato dal meccanismo scenico che, in un complesso gioco di presenze, come un carillon macabro prende vita sul palcoscenico per raccontarci questa fiaba oscura, antica eppure dolorosamente moderna.
Chiara Alivernini
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