I colori maturano la notte. Confessioni di una diversa Alda Merini, ideato, scritto e diretto da Marzia Ercolani, sarà in scena giovedì 4 aprile alTeatro Tor Bella Monaca per raccontarci come si viveva in una struttura manicomiale.
Franco Basaglia diceva “Visto da vicino nessuno è normale”. Cos'è normale? Quanto è pericoloso voler uniformare tutti ad una presunta normalità? Durante il fascismo donne che non rispettavano i canoni dell'epoca erano rinchiuse in manicomio: la loro malattia? Non essere adeguate agli stereotipi culturali del regime o non assolvere completamente ai nuovi doveri imposti dalla “Rivoluzione Fascista”.
Quanti di noi sanno che fino al 1968 in Italia l'adulterio era un reato ed era motivo sufficiente per finire rinchiuse in manicomio? (rinchiuse con la e finale, perché era un reato solo per le donne, non per gli uomini!)
Altri motivi per essere internate? Essere lesbiche, prostitute o ragazze madri: tutte anomalie della femminilità che facevano spalancare le porte degli istituti psichiatrici.
Prima del 1978 tantissime donne sono state internate solo per volontà del marito. Motivo? Avevano osato sottrarsi alle violenze inflitte in casa.
Nel 1978 la legge n.180 in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, la cosiddetta Legge Basaglia, mette fine a quello che è stato, a tutti gli effetti, un caso di violazione dei diritti umani, decretando la chiusura delle strutture manicomiali.
E' sicuramente una legge che va migliorata, che difetta di molti criteri attuativi, nonché di fondi, ma che il Consiglio europeo e la Commissione Europea hanno raccomandato, a tutti i Paesi dell'Unione, di seguire, perché l'Italia, già quarant'anni fa, ha aperto la strada ad una grande forma di tutela dei diritti umani.
I colori maturano la notte, di e con Marzia Ercolani, in scena giovedì 4 aprile al Teatro Tor Bella Monaca, rappresenta il grande contributo che l'autrice vuole dare alla battaglia in difesa di chi ha visto i propri diritti umani calpestati per non essersi adeguate alla morale, per essersi ribellate alla violenza del marito o del padre, per essere un bambino abbandonato, per non aver abortito, per aver amato liberamente.
In un clima di restaurazione come quello attuale, la voce di Marzia Ercolani è una voce preziosa i difesa di chi chiede solo di vivere così com'è. In un giardino, non importa quale fiore tu sia, sei comunque bello nella tua unicità.
Ci incamminiamo all'interno di questa realtà non lontana da noi in termini temporali, ma già, purtroppo, finita nel dimenticatoio, con Marzia Ercolani, ideatrice di questo progetto.
Come nasce questa drammaturgia, che ha come sottotitolo “Confessioni di una diversa Alda Merini”? Quale Alda emerge dalla tua scrittura?
Lo spettacolo nasce da un'esigenza: quello di raccontare cosa accadeva nei manicomi prima della Legge 180/1978. Il progetto nacque anni fa all'interno del Santa Maria della Pietà, la più grande struttura manicomiale della capitale, nel padiglione dell'ex lavanderia, ora occupato da un'associazione dove hanno allestito un teatro. Mentre iniziavo a ragionare sulla drammaturgia ho capito che avevo bisogno del supporto di un'esperienza realmente vissuta da un personaggio forte e conosciuto.
L'occasione si è presentata quando decisi che lo avrei fatto raccontando la storia di Alda Merini all'interno del manicomio. Anche persone che non leggono poesia, la conoscono. Avevo bisogno della sua forza e ho iniziato a studiare il periodo della sua vita durante il quale ha vissuto in manicomio. Attraverso la sua storia, lei racconta cosa accadeva là dentro: torture, mancanza di rispetto, di amore, di umanità nei confronti dei degenti, il novanta percento dei quali non era affetta da alcun disturbo, ma impazzivano rinchiusi tra quelle mura.
La società di allora faceva entrare in manicomio anche ragazze madri, perché era uno scandalo che le famiglie preferivano nascondere. La Merini racconta che nel 1965, quando lei è entrata, la donna era ancora soggetta all'uomo: si passava dalla patria potestà alla potestà del marito. Era il marito che chiamava l'ambulanza e apriva per la moglie le porte del manicomio.
La legge 180 viene spesso messa in discussione: c'è ancora tantissimo da fare, è stata applicata malissimo in molte regioni, perché il vero problema della legge 180 è la sua applicazione. È una legge che va integrata, però è una legge di cui l'Italia deve andare fiera, perché è l'unico Paese europeo ad averne una simile. Anche i familiari che spesso si trovano in condizioni terribili per la carenza delle strutture alternative previste, non sanno cosa accadeva prima.
Venivano internati molti orfani, persone con disturbi che oggi verrebbero trattati con una normale cura farmacologica, omosessuali, tutti coloro che la società dell'epoca vedeva distanti dalla morale pubblica. Donne e bambini in primis. Questa è una realtà che la Merini racconta in molte raccolte poetiche, interviste, nel suo diario scritto durante la degenza.
A me interessa che il pubblico conosca questi angeli rinchiusi in questi inferni, vissuti in un luogo che Alda chiamava Terra Santa. Ne viene fuori una visione della psichiatria dell'epoca davvero pessima. Credo che si possa, partendo dalla storia, capire il presente, cosa manca e cosa bisogna fare. Ma non mettere in discussione la legge.
Quando ho iniziato a lavorare su di lei, è emerso ai miei occhi tutta la sua potenza letteraria, in grado di arrivare anche a chi, normalmente, non legge poesia, a chi la considera noiosa o elitaria.
Com'erano le strutture manicomiali?
Innanzitutto che erano strutture pensate per essere autosufficienti, isolate, dimenticate dalla società. I nazisti, ad esempio, hanno ideato i campi di concentramento basandosi sulla struttura dei manicomi. Poi le torture, l'applicazione delle terapie da shock, come l'elettroshock, ancora legale nonostante poco usato. C'era poi l'insulina terapia, che ti provocava uno shock da diabete, la malaria terapia, che ti causava febbri altissime. Queste sono torture. I degenti non potevano usare le posate, leggere un libro o il giornale, non potevano avere una penna o gli occhiali da vista per evitare che si ferissero, erano imbottiti di farmaci. I bambini a dodici anni erano considerati adulti e venivano spostati nel padiglione corrispondente e sottoposti alle terapie in uso. La maggior parte di loro erano solo orfani che non avevano trovato posto negli orfanotrofi. Il 95% erano persone fuori dalla morale pubblica, non malati. Ed, in ogni caso, nessuno merita la tortura.
Cos'altro emerge dalla tua scrittura?
Spero emerga la resilienza, la grande capacità di questa donna di affrontare l'inferno in cui ha vissuto. Quando Alda Merini viene internata, ha già due figlie. In seguito ne avrà altre due che le verranno tolte e date in adozione. La resilienza è ciò che le ha permesso di sopravvivere, cercando di ribellarsi alla somministrazione di farmaci perché erano un'esclusione dal suo io, erano un falso aiuto. Lei è una che ha avuto una resistenza enorme.
In scena porto anche una strofa della poesia Donne che amano troppo: “Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio, non riceveranno altro che briciole. Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso, purtroppo, fondano la loro esistenza”.
Non mi interessa parlare della sua biografia, della strada verso la notorietà. Neanche la sua vita da poetessa, perché la poesia esce fuori dallo spettacolo, attraverso la citazione di poesie e aforismi. Mi interessa raccontare la donna che è morta e rinata più volte, anche grazie a questa specie di magia, e condanna al tempo stesso, che è la poesia.
Sei sola in scena?
No, con me c'è un grande musicista, Stefano Scarfone con la sua chitarra. Alda Merini amava la musica e amava cantare, in quel manicomio dove si passava da un caos infernale a silenzi assordanti. La musica è un modo per omaggiarla. Rappresenta anche il maschile scenico che parla attraverso la musica: il marito, il lettore e il paziente di cui lei si innamora, padre della sua quarta figlia.
Alla luce delle ultime due sentenze che prevedono, una le attenuanti al marito colpevole di femminicidio perché vittima di una tempesta emotiva, l'altra la revoca del risarcimento ai figli minori di una donna vittima di femminicidio in quanto “il marito l'avrebbe uccisa lo stesso”, quanto ci siamo liberati di questo retaggio culturale maschilista? Non dimentichiamo che delitto d'onore in Italia è esistito fino al 1981...
La donna è ancora vessata e violata in tutto il mondo. Per fortuna ci sono Paesi dove questo è un fenomeno marginale, ma in Italia la situazione è allucinante. È ancora radicato un antico modo di pensare e il potere, quando si trova di fronte ad un interlocutore che cerca di trasformare la situazione, di lottare, tenta inizialmente di schiacciarlo come può, dopo di che diventa più subdolo: fa finta di accettare, di proteggere e di accogliere l'interlocutore “ribelle”, mentre continua il proprio modus operandi in modo più sottile. La condizione della donna è sicuramente cambiata dal 1965, anno in cui la Merini entrò in manicomio, ma in realtà il potere si è riorganizzato. Come donne abbiamo realizzato molte conquiste, ma di base c'è un maschilismo strisciante contro il quale le donne combattono quotidianamente. Ne sono un chiaro esempio le sentenze come le ultime due che hanno fatto scandalo. Se la vittima fosse stata tua figlia, che sentenza avresti emesso? Prima accadeva lo stesso ma non se ne parlava. Oggi si inizia ad affrontare la violenza domestica perché noi donne ne parliamo di più. Il problema è come ne parliamo: la notizia di cronaca è un bene, ma non deve diventare mercato giornalistico. Spesso si assiste a trasmissioni più interessate all'aspetto morboso della vicenda. Mi auguro che le nuove generazioni vengano cresciute in modo differente. Non dimentichiamo mai che questi uomini sono figli di donne.
“La
pazzia è solo un’altra forma di normalità che può generare
poesia, quella degli spiriti tempestosi, avvolti dal vortice del loro
genio creativo che attinge linfa vitale dal delirio”. Alda Merini
Alessia de Antoniis
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