Il 21 gennaio 2020 scorso, presso la galleria PRIORI and LAKOS in via Statuto 13 a Milano, ha inaugurato la tua mostra fotografica “PERCEPTION”, in cui presenti 14 immagini che raccontano la fascinazione potente di questo territorio sulla tua persona, e che hai raccolto durante i numerosi viaggi degli ultimi dieci anni negli Stati Uniti. Da cosa si origina la passione per questo territorio? Quali peculiarità più ti attirano e quali aspetti invece meno?
Sono stato “rapito” dagli
Stati Uniti, principalmente da New York, circa una ventina di anni fa, quando
ci sono stato per la prima volta. Tra il 2008 e il 2009 ho vissuto nella grande
mela. Un mio carissimo amico, inoltre, vive vicino a Boston; spesso sono stato
negli USA anche con lui. Subisco molto il fascino dell’On the road, l’idea di
questo infinito all’orizzonte, in continuo mutamento, mentre percorri le strade
in macchina.
A quale scatto sei più legato? Perché? Nel curatissimo catalogo, i testi di Michele Pettene descrivono, immagine per immagine, gli stati d’animo e le suggestioni che hai vissuto durante il viaggio e da cui si originano tutte le fotografie. Vuoi parlarci di questa collaborazione con Pettene?
Lo scatto a cui sono più
legato è quello del cactus-canestro, Up. Sono anche un grande appassionato di basket
e di NBA, è così che ho conosciuto Pettene, il quale ha scritto i testi legati
ad ogni foto. Altra persona importante per questo progetto è stata Filippo
Cavallazzi, che si è occupato delle stampe insieme al sottoscritto.
Nel comunicato della mostra, leggiamo: “Non l’America del mito, però,
piuttosto il Paese reale, lontano dalle rotte del turismo, e dalle celebri
coste che abitano prevalentemente il nostro immaginario americano.
Paesaggi sconfinati e strutture extraurbane decisamente delabré, segno di una
presenza umana che non ha realizzato il sogno americano, e che galleggia nella
vita come può.” Una descrizione che, paradossalmente per i suoi contenuti che
richiamano alla realtà, pare quasi prosa poetica; ma, forse, sono suggestionata
dalle splendide fotografie che ho visto alla mostra martedì. In cosa ha fallito
il sogno americano? Forse, fallendo, è rimasto ancora più mitico. Convieni con
me?
Non penso che il sogno
americano abbia fallito; ciò che ho tentato di fare è trovare una bellezza nella
decadenza che però ha convissuto con un’evoluzione che si è dispiegata parallelamente
in altri ambiti. Prendi come esempio le autovetture fotografate: erano molto
belle negli anni ’50 e tuttora, nonostante la decadenza, vivono con fascino,
qualcosa che reputo più importante della bellezza.
A Milano hai lavorato con Prada, Versace, Ralph Lauren, Moncler, Nike, tra gli altri. La città meneghina ben si presta ai tuoi racconti fotografici?
Sì, è un ottimo scenario. Sono
legatissimo a Milano, pur essendo di Vercelli; del resto, è da vent’anni che ci
vivo. È una citta perfetta anche per il mio core business, ovvero la moda. A
questo proposito, mi piace molto il mondo vintage, denim e sporting.
La tua passione per l’arte visiva si spiega nella fascinazione per il cinema e l’architettura. Chi sono i tuoi punti di riferimento in questi campi?
Mia moglie è architetta! I
riferimenti in questo campo sono senz’altro Louis Khann e Le Courbusier. Per
quanto riguarda il cinema, bisogna aprire una parentesi perché come università
ho fatto il DAMS, a indirizzo cinema, quindi l’ho studiato a lungo. Paradossalmente,
faccio fatica a trovare riferimenti, ce ne sarebbero tanti… Eppure, se dovessi
ricondurre tutto a un nome, direi Woody Allen, che mi fa sempre stare bene.
Ti piace la letteratura? Prediligi la poesia o la prosa? E per quanto riguarda la musica, quali sono i tuoi gusti?
Mi piace molto la letteratura e in particolare i romanzi. Amo James Ellroy e i suoi polizieschi: da L.A. Confidential e White Jazz ad American Tabloid e Sei pezzi da mille. C’è uno spaccato della cultura americana anche passata, da Kennedy in avanti. Per quanto riguarda la musica, sono un po’ onnivoro; sicuramente, mi definirei un appassionato di grunge e black music, sono generi che ascolto tantissimo.
Grazie mille,
Chiara Zanetti
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