Oggi ho avuto il piacere di parlare con Gianmarco Ciullo, in arte Sane Ciullo, fotografo e grafico digitale. Non sembra prendersi troppo sul serio questo giovane artista (classe 94), ma superando le apparenze è subito chiaro che mi trovo di fronte ad un professionista emergente. Passione, ricerca e consapevolezza caratterizzano il suo lavoro.
Per rompere il ghiaccio: chi sei? Vuoi presentarti?
Sono un fotografo e un grafico digitale. Ho iniziato in prima media per curiosità facendo scatti ai miei amici con un Nokia N70 e rielaborandoli per renderli migliori. Da subito ho capito che era quello che volevo fare e ho proseguito gli studi in questo senso. Dopo un primo approccio grafico ho scoperto la fotografia. Mentre proseguo l’Accademia di Belle Arti lavoro come freelance. Ora, però, uso una Nikon.
Ho visto che hai molti interessi: spazi dalla rielaborazione digitale al reportage e alla ritrattistica. Perché questa diversità di generi e quale di questi ami di più?
Per prima cosa, ho 22 anni e voglio sperimentare. Mi ritengo una persona eclettica e vivo la fotografia a trecentosessanta gradi. Amo unire i generi, per esempio ritratto e photo manipulation. Sono, però, i ritratti in bianco e nero ciò che mi appartiene di più, perché permettono di fondere fotografia e psicologia. Cerco stimoli in varie espressioni artistiche, non solo nella grafica. Per esempio la musica è stata una delle mie prime passioni. Ho iniziato a sperimentare fotografia ai concerti metal, seguendo amici in tour. Oggi canto in due gruppi. Voglio provare molte cose. In fondo - ride - la vita è una!
Torniamo al ritratto: si può dire che è la tua specialità. Cosa cerchi in un soggetto?
Quello che mi interessa sono le emozioni di chi raffiguro e sono queste che voglio trasmettere allo spettatore. Quando faccio un ritratto parlo con il modello/la modella per comprendere e cogliere le sensazioni che prova. Cerco di trasferirle nello scatto e di cogliere quell’io profondo che c’è in ogni persona. La fotografia è comunicazione, cerca di trasmettere un messaggio, ma è anche una forma di analisi psicologica. La mia ricerca segue le suggestioni di Freud. Sto studiando una tesi secondo cui l’autoscatto in particolare, molto in voga oggi, il selfie per intenderci, sia un modo di esprimere parte del proprio Es. Come Freud interpretava i sogni per arrivare all’inconscio del paziente, l’autoritratto esterna la parte più intima del soggetto. Mi sembra che, più ancora che di fronte ad un fotografo, le persone si sentano a proprio agio e mettano a nudo se stesse davanti al loro telefono. Per lo stesso motivo si è diffusa la fotografia di nudo. Questa idea mi affascina e ci sto lavorando.
Credi che la mania del selfie continuerà?
Bhè sì, è appena iniziata: credo sia solo il principio. Ma non ne sono sicuro perché c’è una tendenza nella vita e nell’arte ad un ritorno al passato come se si trattasse di un ciclo. Pensa al vintage o al ripetersi delle tendenze. Credo che questo sia un problema per il processo creativo che va avanti, ma ritorna anche molto indietro, evolvendosi lentamente.
Quali artisti ti influenzano?
Tutta la vecchia scuola: Averdon, Irving Penn, Cartier-Bresson, Salgado..fotografi interessati alla cinematografia e al giornalismo, ma anche altri più legati al mondo pubblicitario come Delille, Tadder, Johnson. Certo non ho né i loro soldi né i loro contatti. Nei primi tempi ho studiato molto da solo, come autodidatta, e ho cercato consigli in amici più grandi che mi hanno certamente influenzato. In questa professione ci vuole carattere e tenacia. La tendenza ad una ritrattistica vecchio stile del mio lavoro mi sembra che non sia apprezzata molto in un ambiente rivoluzionato dal mondo digitale e dai social network. Sebbene usi questi utili strumenti, non ho raggiunto, né cercato, migliaia di “like” sul web. Altri fotografi riescono ad ottenere una certa notorietà grazie a tali mezzi. Però, quando qualcuno guarda una mia fotografia mi sembra rimanga colpito. Non ho la tendenza a fare scelte che possano essere più appetibili al pubblico per raggiungere fama e ricchezza. Ovviamente non mi dispiacciono, ma bravura tecnica e popolarità raggiunte senza passione ed emozione valgono poco. Il sentimento è fondamentale nell’arte. Posso sintetizzare il mio approccio in una citazione del mio gruppo preferito, gli H2O: «Passion before fashion – la passione prima della moda» [ndr: da «What happened»].
Vivien Maier ha cambiato notevolmente la fotografia di strada. Ho visto che anche tu hai alcune fotografie di questo tipo scattate a Roma. Cosa pensi di questo genere?
La fotografia di strada o il reportage sono un genere difficile. Bisogna cogliere veramente l’attimo e la velocità necessaria in questi casi rende più complessa quella ricerca delle emozioni di cui ti parlavo. In studio è più facile. Bisogna aver maturato una certa esperienza per avere buoni risultati nella street art. Non me ne sono occupato moltissimo, avendo privilegiato il ritratto, ma sto sperimentando. La maggior parte delle foto di questo genere le ho fatte con l’i-phone. Infatti, la rapidità che offre il telefono si offre bene a questa tipologia espressiva. Inoltre mi permette di fare foto ad una persona senza che se ne accorga.
Sei originario di Roma e ci vivi. Quanto ti ha influenzato questa città? Quale zona ti piace di più?
Bhè ci sono cresciuto e ha influenzato certamente la mia adolescenza. Gli eventi musicali della capitale mi hanno permesso di cominciare; come ti dicevo, ho iniziato fotografando concerti metal. Sempre in quegli anni, mentre i miei amici andavano a Gallipoli in vacanza, incuriosito da un programma televisivo, mi sono messo e ho imparato ad usare un programma di grafica. Roma è la mia città, ma ora vorrei anche viaggiare un po’. La mia zona preferita? Mmm… Flaminio.
Quali luoghi vorresti vedere?
Ho sempre avuto il mito degli Stati Uniti e prima o poi ci andrò. In questo momento, però, sono attratto dall’Olanda. A Rotterdam, tra l’altro, c’è un’avanzatissima scuola d’arte.
Qualcosa di curioso che ti è successo mentre fotografavi?
Molte cose, in realtà… Uno dei momenti più belli è stato quando sono andato con un amico a fare foto ad un palazzo a Tiburtina. Faceva un freddo cane e, mentre montavamo un treppiedi alla Reflex, è passata una coppia. Lei ci ha guardato e ha commentato: «questa sì che è passione per la fotografia!». È stato bello perché aveva colto come vivo la mia professione. Invece, mi succede sempre, dopo un servizio, che le persone a cui ho fatto fotografie, una volta ultimato il lavoro, rimangano stupite, come se non se l’aspettassero da me. Sai, sono molto alla mano, tranquillo e tratto tutti nello stesso modo anche se mi è capitato di lavorare con persone importanti. Non cambio il mio abbigliamento o il mio linguaggio. Per esempio sono di Roma e, anche se parlo italiano, non cerco di nascondere la mia inflessione. Perché dovrei? Sono romano! Sono, semplicemente, sempre me stesso. Questo aiuta anche a mettere a loro agio le persone con cui lavoro, però è come se non mi prendessero più di tanto sul serio prima di vedere il risultato. Mi sono persino tagliato i capelli per sembrare più “rispettabile”! (ride)
Cosa significa essere freelance oggi?
È difficile. Dicono che ci voglia pazienza e io non ne ho molta. Mi sono trovato a lavorare in luoghi d’élite in cui, nonostante gli accordi già presi, alla fine chi mi aveva ingaggiato ha cercato di tirare sul prezzo. C’è parecchio sfruttamento.
Che progetti hai in corso? Cosa vedi in futuro?
Ho creato una collezione di magliette con alcune fotografie astratte chiamata Vision. Ho dato questo nome al progetto perché si tratta di “visioni” che ho cercato nella città. Ho fotografato, con il telefono in questo caso, tutto ciò che mi ha ispirato e che gli altri non avevano visto. Ho, anche, appena fatto una serie di fotografie più “social” chiamata “cacio e pepe” con espressioni romane, visibili su facebook. In futuro mi piacerebbe curare la fotografia di un film.
Vedo che sei un tifoso della Lazio.
Ah sì. Sempre stato fin dalla nascita: ho persino gli occhi bianco azzurri! Vengo da una famiglia di tifosi laziali. Guardare la partita a casa con mio padre ogni domenica è quasi un rito a cui non rinuncerei mai. Lo aspetto tutta la settimana. È un momento di grande vicinanza tra noi durante il quale riusciamo a parlare. Perciò, anche se perdiamo (e siamo abituati a soffrire!) non importa più di tanto. Poi sulla situazione della squadra fammi stare zitto che è meglio!
Per finire toglimi una curiosità: da dove ha origine il tuo nome d’arte?
E’ nato in onore del writer americano Sane Smith da cui ho preso il nome che ho unito al mio cognome.
Michele Cella
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