MILANO- Discreta partecipazione di pubblico per la presentazione milanese di Fuck It, fotobook di Michele Sibiloni edito dalla casa editrice Patrick Frey. Nella sala del GIGANTIC, con l’accompagnamento musicale di Dj set Pontus Berghe (The Quincey/Caphel One), sono state esposti molti scatti suggestivi che immortalavano gli eccessi della vita notturna di Kampala, capitale dell’Uganda.
Un viaggio tra prostitute, alcol, droghe e trasgressione: Sibiloni testimonia tutto questo, nelle sue foto. Il titolo del libro nasce da uno degli scatti più scottanti, il tatuaggio di un pene con la scritta FUCK IT sulla coscia destra di una ragazza ugandese. Il fotografo ha voluto mostrare in maniera documentaristica quello che non viene mostrato al telegiornale, ossia quel bisogno di trasgressione, di libertà e di divertimento che degenera, talvolta, nella follia e nell’eccesso: ragazzi completamente ubriachi, donne che si concedono amori misti, guardie armate che guardano infastidite l’uomo con la fotocamera.
Oltre alla vendita delle copie del libro e della special edition con l’art print dell’autore, gli invitati hanno potuto vedere il filmato dell’intervista fatta dall’artista a Sandra, una prostituta ugandese che si racconta senza censure, affrontando il terribile dramma dell’HIV, il cui rischio di contagio è davvero molto elevato.
Abbiamo intervistato l’autore, Michele Sibiloni, che ci ha raccontato la nascita e lo sviluppo di questo progetto.
Da dove nasce il progetto di Fuck it?
Vivo in Uganda ormai dal 2010. Ero andato come fotogiornalista per testimoniare le elezioni e il referendum sull’indipendenza del Sudan del 2011. Qui ho vissuto un momento di crisi: mi sono reso conto che nel mio lavoro mancava un elemento personale, biografico, che riguardasse la mia vita privata. Per questo, ho cercato di cimentarmi in un progetto che raccontasse qualcosa di me. Ho abbandonato incarichi e vari eventi che mi erano stati proposti, e ho iniziato a fotografare ciò che mi colpiva di più di Kampala: ad esempio, i guardiani privati locali, che giravano di notte armati di fucili. Da lì poi ho iniziato a scattare foto che ritraevano la vita notturna della capitale non solo focalizzandomi sui luoghi di divertimento tradizionali (penso a pub e discoteche), ma tutto ciò che stava intorno ad esso: la cucina, gli eccessi, il sesso. Volevo testimoniare uno stile di vita che era qualcosa di nuovo per me, molto lontano dalla mia esperienza. All’inizio era solo per gusto documentaristico, non avevo l’idea del libro; dopo due anni di lavoro e di materiale, ho capito che, da questa esperienza, poteva nascere un book fotografico. Fuck it è stato mandato a diversi festival e concorsi dedicati ai fotolibri, finché l’editore Frey ha deciso di pubblicarmi.
Com’è stata l’esperienza in Uganda, in un Paese così lontano dalla nostra cultura?
Io vivo ancora lì. È sicuramente un ottimo punto per lavorare in quelle zone, data la sua posizione strategica: in poco tempo posso essere in Sudan, in Congo, in Tanzania… Kampala è una grande città, ma non è una vera e propria metropoli, come Nairobi, ad esempio. Qui il tasso di criminalità non è così alto. Si potrebbe definire un grande villaggio. Le persone sono gentili, non aggressive. Non mi sono sentito in pericolo: ho trovato molto bene a livello umano.
L’Uganda è un paese in cui il governo proibisce ogni forma di trasgressione e di pornografia. Eppure, le tue foto immortalano la vita notturna di queste persone, tra alcol, prostitute e festini. Ci racconti questa discrepanza?
L’Uganda è un paese conservatore e dove domina una forte componente religiosa. Abbiamo il gruppo della Chiese pentecostali statunitensi, che hanno una grande influenza a livello politico. Il governo quindi ha adottato questa strategia di controllo e di tolleranza zero, ma il risultato è stato opposto: le immagini del libro testimoniano questa trasgressione, che è presente, anche se non così diffusa. Ho voluto raccontare la mia esperienza: una vita notturna movimentata. In realtà, nessuna autorità impedisce questo: piuttosto, i cittadini non hanno alcuna libertà politica. Non si possono fare comizi, o delle manifestazioni di protesta: queste vengono infatti represse duramente. Il governo, quindi, forse per giustificare questo lato oppressivo, finisce per chiudere un occhio sulla trasgressione e gli sfoghi della vita notturna delle persone.
Nei tuoi scatti, cerchi di testimoniare il dramma delle donne ugandesi, costrette a prostituirsi per avere del denaro. Perché hai scelto questa tematica?
In realtà non sono tutte prostitute quelle che ritraggo nelle mie fotografie: sono persone che ho conosciuto e con cui ho lavorato. Detto questo, sicuramente la prostituzione è un problema reale: con così tanta povertà, molte ragazze finiscono in questo vortice, complice anche, spesso, una situazione difficile a livello familiare. Ho voluto testimoniare questo problema perché fa parte della vita notturna ugandese: ritorniamo qui allo scopo che mi ero prefissato con i miei scatti, ossia quello di documentare, in maniera oggettiva, ciò che vivevo qui.
Ci sono alcune foto che sono molto significative: mostri infatti gruppi di turisti (per lo più uomini bianchi) intenti a divertirsi in piscina, in discoteca, accanto alle ugandesi, costrette a subire abusi e a offrire prestazioni degradanti per appagare gli appetiti di questi uomini bianchi…
Non proprio. A volte, gli scatti possono dare questa impressione, ma non è sempre questa la verità. Spesso, anche gli ugandesi partecipavano a questi party e feste. Esiste anche qui una middle class, o comunque una classe benestante, che partecipa attivamente alla vita notturna dei turisti bianchi. Non c’è quindi una netta distinzione tra bianchi e neri, è un atteggiamento che coinvolge tutte le persone.
Durante la serata, hai proiettato un’intervista fatta ad una prostituta del luogo, in cui si rimarcava il dramma dell’HIV. Spesso queste donne prendono l’Aids durante i rapporti con i turisti…
Sicuramente. Il rischio del contagio è molto elevato, soprattutto per le ragazze che si prostituiscono. Vi racconto, ad esempio, la storia di Sandra, la ragazza con il tatuaggio a forma di pene sulla gamba che ha dato il titolo al libro. Lei non è positiva, anche perché si protegge sempre: per questo, cerca di non ubriacarsi mai, né di perdere totalmente il controllo, perché potrebbe essere davvero pericoloso. Una volta, un uomo le ha offerto 300 mila scellini (pari quasi a 100 euro) per avere un rapporto senza protezione. Lei ha rifiutato, ma poi, avendo bisogno di denaro, perché non aveva nulla da mangiare, l’ha richiamato, accettando purché usasse il preservativo. Lui ha rilanciato, prima raddoppiando, poi triplicando la cifra. Lei si è insospettita: aveva capito che era sieropositivo e voleva infettarla.
Com’è la situazione politica di questi paesi, dilaniati da guerre locali, di cui i mass media non si occupano?
In Uganda, è da 30 anni che c’è lo stesso presidente. Non vi è alcuna libertà politica: i cittadini non possono riunirsi per protestare, o per fare dimostrazioni di massa. Anche le piccole forme di protesta sono soffocate sul nascere. Il presidente, ormai vecchio e paranoico, reagisce con una durezza spropositata di fronte a queste manifestazioni, inviando l’esercito e i carri armati… Anche le elezioni dello scorso marzo sono state rubate: si sono riscontrate moltissime irregolarità, denunciate da molte organizzazioni internazionali sui diritti dell’uomo. Purtroppo, il regime ugandese sta diventando sempre più oppressivo.
Che cos’è per te la fotografia? Com’è che ti sei accostano a questa professione?
Innanzitutto, una passione. Ho sempre amato la fotografia, e, da giovane, ho capito ce era un modo per andarmene, per viaggiare in tutto il mondo. Poi, col tempo, ho capito che quello che cercavo era di raccontare, con i miei scatti, le mie esperienze personali: questo mi ha portato a cambiare prospettiva. Non serve andare in posti lontani, o dall’altra parte del mondo: posso raccontarmi ovunque, in qualunque situazione io mi trovi.
Tu hai viaggiato molto per l’Europa. Come giudichi il clima di paura e di sospetto che serpeggia sempre più nel Vecchio Continente, a causa degli attacchi terroristici in Francia e in Belgio?
Non saprei bene cosa dire, anche perché, abitando in Uganda, sono stato lontano da queste questioni. Sinceramente, nei brevi viaggi che ho fatto per l’Europa, sebbene solo come scali, non ho avvertito questo. Tuttavia non ho avuto modo di approfondire la permanenza. Credo però che la paura sia dentro la testa delle persone. Quello che magari colpisce l’opinione pubblica è che questi attentati che ci sembravano così lontani, ma che io ho visto e documentato in altre parti del mondo, ora siano arrivati qui, nel cuore dell’Europa. Nessuno pensava che sarebbero potuti accadere proprio qui, nelle nostre grandi metropoli.
In passato, hai lavorato per testimoniare, con i tuoi scatti, il dramma dei migranti. Cosa ne pensi della politica adottata dall’Europa in merito a questa difficile questione? Per alcuni mesi, si era parlato di chiudere Schengen…
Credo che la politica dell’Unione europea non sia la soluzione giusta: con la chiusura dei confini si aprirebbero infinite possibilità per i trafficanti. Non servono le reti e le barriere: credo che siano soluzioni utili solo ad impressionare la gente. Sicuramente, le risorse per gestire questo dramma ci sono: quando si tratta di salvare una banca dal fallimento, i soldi si trovano sempre…Credo che si tratti di strategie politiche cieche: servirebbe una maggiore collaborazione tra paesi, un maggiore dialogo, per mettere fine a questo drammatico clima di caos.
Riccardo Proverbio
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