Partiamo dagli esordi. Nel 2003, desti vita alla serie 'Conversazioni disegnate', in cui ogni opera venne realizzata in tempo reale durante, appunto, una "conversazione". Questo espediente attirò molto l’attenzione di pubblico e critica. Ce ne vuoi parlare?
Di fatto la mia carriera da professionista
prese il via esattamente da quella serie che, a sua volta, nacque in modo del
tutto casuale. All'epoca frequentavo il Liceo Artistico di Lucca e, in un
giorno di autogestione (durante il quale mi stavo decisamente annoiando), mi
trovavo in un'aula dell'ultimo piano con alcuni amici. Avevo in mano un
bastoncino di fusaggine (ancora uno dei miei materiali preferiti) e sul tavolo
un semplice 50x70 bianco Fabriano di quelli che utilizzavamo in tutt'altro modo
per fini scolastici. Uno dei ragazzi presenti stava raccontando qualcosa e io,
in modo del tutto naturale, iniziai a disegnarlo in tempo reale. Ecco, quello
fu l'inizio: “Ruggero”, il nome dell'opera e di colui che l'ha ispirata. Da
quel momento, negli anni, ho realizzato molti altri 'ritratti', perché di
questo parliamo: veri e propri ritratti della persona nel loro connotato
mentale e non fisico. Durante questa sorta di 'seduta' i miei 'modelli' parlano
e io ne disegno le parole senza che possano vedere ciò che sta accadendo. Un
po' come un paziente che non può vedere gli appunti del terapista. Il risultato
finale, quando svelato, quasi sempre fa uscire qualche lacrima, non tanto per
la bellezza o meno dell'opera, ma perché in quei tratti vi sono raccontate le
storie di vita delle persone, alle quali pongo sempre grande
attenzione.
Negli anni successivi, hai preferito dare impulso alla tua carriera in qualità di designer, creando, nel 2008, Studio Matitanera, realtà impegnata negli ambiti del design, comunicazione e marketing, di cui sei direttore. Come sta andando? Te la senti di esplorare i legami tra design e arte figurativa?
Sì, c'è stato un momento in cui ho capito che,
se volevo crescere davvero come artista, dovevo crescere anche come grafico,
fotografo, designer e, soprattutto, imprenditore. Il concetto dell'artista
sognatore con la testa fra le nuvole non mi è mai stato proprio. Sono una
persona estremamente pragmatica che non ama sognare, ma progettare. Se, ad
esempio, desidero sperimentare nuove tecniche, nuovi linguaggi, nuove forme di
espressione, semplicemente, lo faccio. Studio Matitanera è il veicolo ufficiale
per farlo. Rappresenta il mio orgoglio, oggi condiviso con molti collaboratori
che ogni giorno apportano attivamente il loro contributo da diversi paesi nel
mondo. È una fucina di idee dove nessuna viene bloccata o evitata di default. È
una piattaforma snella, ma molto efficace, capace di osare, rischiare ed
evolversi in nuovi contesti ogni giorno. Attualmente seguiamo progetti per grandi
multinazionali per le quali sviluppiamo soluzioni di comunicazione, marketing,
fotografia, design e così via. Ma abbiamo anche numerosi brand e progetti
proprietari, dalla nostra linea di taccuini Noteblack fino al più recente
spin-off tecnologico: una realtà attiva nell'ambito del machine learning, big
data e intelligenza artificiale che stiamo per lanciare ufficialmente. Tutto
questo confluisce nel mio lavoro artistico, nelle mie tele e nelle mie
installazioni. Più imparo, più le mie opere si arricchiscono e diventano pregne
di valore.
I numeri parlano chiaro: più di 30 esposizioni personali in tutto il mondo. Come ti senti in merito? Qual è la mostra che ricordi con più commozione?
Numeri che sono cresciuti e che cambiano
settimanalmente, ma, per rispondere alla tua prima domanda, pur essendo un
vanto, per me sono già il passato. Come mi sento? Affamato. Il mio lavoro mi
porta a fare esattamente ciò che ho sempre sognato: creare. Ma non mi basta
mai. Non ho dipendenze se non quella di mettere in pratica ogni idea che
ritenga meritevole di essere data alla luce. Per farti un esempio, durante
alcuni importanti vernissage partecipati da centinaia di persone, è
capitato che qualcuno dei miei collaboratori mi chiedesse:"Guardati
intorno, ti rendi conto?". L'orgoglio di vedere così tanta gente attenta a
qualcosa che ho creato nel mio studio, con la mia canina intorno e con la
musica che amo, è un pensiero che toglie il fiato. Eppure, non posso negare,
persino in quei momenti la mia mente si proietta già verso il passo successivo.
Se da una parte il rischio è quello di non godere mai a pieno dei propri
successi, dall'altro il vantaggio è quello di non rischiare di adagiarsi mai.
Ma non saprei dirti di una mostra più commovente di altre. Lo sono state tanto
le prime, intime e più semplici, quanto le ultime grandi produzioni come
'Congetture Isomorfe', la serie dei record con oltre ottocento giorni di mostra
ininterrotta presso il Museo degli Strumenti per il Calcolo dell'Università di
Pisa.
Nel Febbraio 2014, iniziasti un'approfondita ricerca sull'uso del colore attraverso lo studio di centinaia di opere d'arte di epoche differenti, accreditato presso i principali tre musei di Madrid: Prado, Reina Sofia e Thyssen-Bornemisza. Approfondiresti, in questa sede, la genesi del progetto? Ti chiederei anche di fare accenno alle conclusioni a cui sei pervenuto.
Ho sempre amato il colore, naturalmente, ma ho
avvertito la necessità di iniziare un percorso di studio più tecnico e
approfondito per padroneggiarne l'uso in ogni ambito del mio lavoro, dalla
pittura al design. Madrid era il luogo perfetto perché quei tre musei, grazie
all'accredito di cui parli, mi regalavano una carrellata di incredibile valore
a cavallo tra epoche diverse. Capolavori che avevo già visto molte volte, ma
che decisi di 'scansionare' in modo molto più attento. Ne sono derivati
infiniti appunti che sono, ancora oggi, alla base del mio lavoro con Invelight,
uno dei fiori all'occhiello di Studio Matitanera e Colour State of Mind, il
format educativo che porto nelle scuole e non solo per raccontare proprio il
mio lavoro in tal senso. Non c'è una sola conclusione e lo studio va avanti
ogni giorno, ma quello che posso dirti è che abbinamenti cromatici che
funzionavano molto bene in una tela del Seicento funzionano molto bene anche
oggi, pur applicati in ambiti e contesti molto differenti. I veri geni
dell'arte sono coloro che hanno posto le basi anche per la moderna
comunicazione. Questo è il mio ambito di studio primario: pattern che si
ripetono (più o meno consapevolmente) e che emozionano attraverso le
epoche.
“Il colore è un potere che influenza direttamente l’anima”.
Così sosteneva Vasilij Kandinskij. Tu cosa ne pensi? Hai qualche infarinatura di cromoterapia?
Penso che sia proprio così, ma,
come Kandinskij aveva egregiamente teorizzato, è molto importante
padroneggiare la tecnica del colore per colpire ancor più nel segno. Io cerco
di farlo ogni giorno. Nel 2017 ho avuto l'onore di avviare un percorso di
lavoro con Cromology, una delle principali multinazionali dedite alla
produzione di vernici. Ho avuto la fortuna di trovare persone di grande
spessore, a cominciare dall'AD Massimiliano Bianchi fino a Maria Grazia
Russo, Digital, Communication & Retail Trade Marketing Manager dell'azienda
e mio primo referente. Abbiamo iniziato con progetti prettamente artistici
che, grazie appunto alla lungimiranza di Maria Grazia, si sono nel tempo
evoluti anche in lavori molto tecnici. Proporre al pubblico tavolozze, oltre a
singole cromie, che possano davvero avere un appeal positivo nella vita
quotidiana della gente è una delle missioni che condivido con l'azienda. In
particolare sviluppiamo progetti di altissimo livello con il Color Design
Center diretto da Leonardo Pelagatti. Quando le persone acquistano una latta di
vernice, raramente hanno idea o percezione della poesia e della scienza che vi
sono mescolate all'interno. Quello che mi vede coinvolto è un processo
estremamente raffinato che mescola la mia esperienza artistica con quella
tecnica dell'azienda e che, anche fra pochissimi giorni, darà nuovi frutti a
livello pubblico.
Mi ha incuriosito, in particolare, la serie “Universo instabile”, un'allegoria visiva del desolato e frenetico spazio che esiste dentro ognuno di noi. Cosa ti premeva comunicare attraverso essa? Nel 2018 ne nacque anche uno spettacolo teatrale, una sorta di manifesto a cui ne è seguito un altro. Intendi proseguire anche la tua carriera alla regia teatrale?
'Universo Instabile' ha rappresentato una
svolta per il mio lavoro, da ogni punto di vista: critica, stampa,
partecipazione delle persone e caratura delle vendite. Ci sono opere anche
negli Stati Uniti, per farti un esempio. L'idea alla base era molto semplice:
mostrare la natura umana attraverso una chiave 'spaziale', in cui una miriade
di personaggi è protagonista di una grande pièce teatrale: la vita. Sorrisi,
pianti, lotte, esplosioni, detriti che feriscono, luci che abbagliano: c'è di
tutto. A prima vista potrebbero sembrare disegnini di simpatici astronauti, ma,
se osservati con attenzione, vi si troverà nascosta una simbologia
profondissima in cui lo spettatore può perdersi. Ognuno ha i propri spazi
nascosti, le proprie fragilità: 'Universo Instabile' dà loro forma.
Il tema era quindi ottimo per una trasposizione scenica che è avvenuta grazie
alla collaborazione della bravissima coreografa Annalisa Ciuti con cui, insieme
al suo corpo di ballo di Studio Danza Pisa, abbiamo dato vita a scene tratte
dalle mie opere. Il risultato è stato così emozionante da indurci a replicare
l'esperienza l'anno successivo portando in scena 'Poliedro. Danza. Ora', che ha
visto protagonista il grande attore Sandro Lombardi quale voce per la
narrazione fuoricampo. Ciò detto, sì, senza dubbio, il mio lavoro nel teatro è
solo agli inizi, ma ci saranno sicuri sviluppi nei prossimi mesi e
anni.
Un’altra emozione significativa è recentissima, proprio di quest’anno: sei stato infatti invitato a New York per la realizzazione di una live performance su un grattacielo di Manhattan, in occasione di un evento esclusivo privato. Cosa hai provato? E come è stata accolta la performance?
Chi è stato a New York sa che è un luogo in cui
ci si sente a casa dopo pochi minuti. Non importa la sua grandezza, ad
avvolgerti è una sensazione 'della porta accanto' o quanto meno per me è stato
così durante le mie visite. Quella di aprile è stata un'esperienza completa ed
eccezionale che mi ha fatto vivere tanto la New York più scintillante di
Broadway, dove ho conosciuto il grandissimo Bryan Cranston a cui ho donato una
mia piccola opera, quanto quella più intima delle abitazioni private e dei veri
newyorkesi. Ho incontrato persone molto interessanti che mi hanno accolto in
modo egregio dando grandissimo risalto al mio lavoro. La performance doveva
avvenire sulla terrazza di un grattacielo, ma, nel momento prestabilito, le
condizioni meteo erano proibitive, così abbiamo deciso di svolgerla in questo
splendido attico su Central Park West. Ti assicuro: all'interno si respirava
ancor più New York che guardando allo splendido skyline. Solitamente mentre
disegno tengo le cuffie, cosa che quel giorno non ho fatto, così ho avuto modo
di parlare in tempo reale con le persone presenti ed è stato un grande
arricchimento.
Ti pongo una domanda a cui, probabilmente, è difficile rispondere ma è anche significativo farlo: qual è, a tuo avviso, la funzione sociale dell’arte? Ne esiste anche una terapeutica? Mi riferisco, per esempio, ai centri di recupero per soggetti affetti da dipendenze.
Credo che, come in ogni cosa, gli estremismi
siano sempre deleteri. Questo vale anche per l'arte: attribuirle un compito che
non le è proprio elevandola a panacea di ogni male è sicuramente sbagliato
perché se ne perde la percezione più pura. Per contro, l'arte intesa come mera
occasione di colpire e stupire, spesso in modi davvero banali e ridicoli, è un
esercizio fine a sé stesso. Personalmente credo che possa essere un ottimo
veicolo di propagazione di valori. Nella mia esperienza, ad esempio, vedo ciò
che accade attraverso il progetto 'My Art is Female', che, sotto la guida
della mia curatrice Cláudia Almeida, sta da anni facendo riflettere e parlare
del tema della violenza sulle donne. Qualcosa che mi sgomenta quotidianamente e
a cui cerco di rispondere con i miei mezzi. Le mie opere al riguardo, sia i
disegni che le fotografie che ritraggono donne sulla cui pelle ho disegnato,
sono, appunto, un veicolo per suggerire qualcosa di molto semplice: se fai
violenza su una donna sei solo un bastardo. Lo penso io e mi preme dirlo anche
a chi osserva i miei lavori. Quando viene usata come terapia, più che di
'arte', termine molto abusato, parlerei di espressione, che è la cosa più
bella: le persone soffrono e arrivano ad avere dipendenze spesso perché manca
loro qualcosa e, in molti casi, quel qualcosa è una voce, un modo per
comunicare e, soprattutto, una platea a cui rivolgersi. Ben vengano quindi i
progetti che danno voce alle persone suggerendo loro che c'è qualcosa di molto
più bello e salutare a cui assuefarsi: il colore.
Il settembre scorso hai esordito a Roma, presso la prestigiosa Libreria Antiquaria Calligrammes, con la serie di tavole inchiostrate dal titolo "NERO/AVORIO. Alla maniera dell'incisione", omaggio alle antiche incisioni su carta e alla produzione di William Blake, uno dei tuoi artisti preferiti. Chi sono stati gli altri artisti che hanno costituito una fonte di ispirazione? Quali sono le prossime tappe della mostra?
Sì, un luogo magico quello della Libreria Antiquaria Calligrammes dove il mio lavoro è stato valorizzato in modo squisito, in primis grazie al suo titolare, Maurizio Bifolco. Durante il vernissage è intervenuto anche Osvaldo Bevilacqua, un caro amico da molto tempo e con il quale ho intrattenuto una interessante conversazione durante la live performance trasmessa in diretta su Facebook.
Venendo agli artisti, ne amo moltissimi in modo viscerale, ma, se parliamo di arti figurative, pur essendo stato 'bombardato' per quasi tutta la mia vita da migliaia di immagini e suggestioni, ho cercato di non basarmi su nessuno di loro. Lo avrei sentito un po' come un furto e, soprattutto, ne avrei tratto meno soddisfazione. Quando le persone dicono 'questo mi ricorda quello o quell'altro' io non dico mai che hanno torto, perché se la loro mente ha elaborato quel parallelo, è sicuramente meritevole di rispetto. Ma ciò che dico sempre è che, senza dubbio, non vi è alcun riferimento voluto. Fanno eccezione, naturalmente, gli omaggi diretti ed espliciti. In 'Nero/Avorio', ad esempio, ce ne sono tre: una tavola raffigurante il 'Fantasma di una Pulce' del mio adorato William Blake, oltre a due tavole omaggio a 'Dante e Beatrice contemplano l'Empireo', del magnifico Gustave Doré.
La serie raggiungerà altre capitali europee il
prossimo anno, ma a Roma, visto il luogo e le persone coinvolte in questo
esordio, ho lasciato il cuore. Come ogni volta che mi trovo a lavorare in
questa splendida città, accolto da gente che ha davvero una marcia in
più.
Ci sono temi di attualità che ti piacerebbe affrontare nei tuoi prossimi lavori?
L'attualità diventerebbe passato nel momento stesso in cui iniziassi a sviscerarla e tradurla in opera, per cui di base non direi. Sono molto più interessato a un tipo di processo differente come prendere qualcosa di estremamente complesso e settoriale come ad esempio la Congettura di Poincaré e trasformarla in opera (come avvenuto in 'Congetture Isomorfe') o il tema dell'Ultima Cena e renderlo attraverso il racconto delle reazioni più umane (come avvenuto in 'Elevata Concezione'). Quindi mi piace in particolare trattare temi senza tempo. Anche perché spesso l'attualità è sfruttata da chi è privo di idee e di talento per darsi un tono: prendi qualcosa di cui tutti parlano e ci inventi qualcosa sopra così che ne parlino altrettanto. Poco interessante.
Chiara Zanetti
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