IL GIARDINO DEI CILIEGI. IL SOGNO A TEATRO

IL GIARDINO DEI CILIEGI. IL SOGNO A TEATRO

Serra restituisce una fedeltà totale al testo originario, tale da marcare il carattere di ogni singolo personaggio senza alcuna alterazione.

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«Siamo a teatro! È bello il teatro»


Ed è proprio il caso dirlo. Finalmente uno spettacolo che restituisce il senso del fare teatro.

Siamo invitati a partecipare a un sogno o forse alle reminescenze di un ricordo nostalgico, di un vissuto nato e cresciuto in uno degli spazi più belli dell’intera Russia, nel giardino dei Ciliegi, la tenuta di una famiglia aristocratica ambientata nel momento immediatamente successivo alla concessione dell’emancipazione dei servi della gleba mediante l’abolizione del sistema feudale del 1861. Tale data segnò l’inizio di un’epoca buia per l’aristocrazia che entrò in una lenta decadenza: molti nobili, privati dei loro servitori che prima si erano occupati delle loro case, caddero in povertà, mentre lentamente prese a svilupparsi la classe borghese.

È l’ultima opera del drammaturgo russo e fu rappresentata per la prima volta il 17 gennaio 1904 al Teatro d'Arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij e di V. Nemirovič-Dančenko. Interessante sapere che Čechov concepì quest'opera come una commedia poiché contiene alcuni elementi di farsa. Tuttavia Stanislavski la diresse come una tragedia. Dopo questa produzione iniziale, i registi hanno dovuto attenersi alla duplice natura dell’opera. Eppure “il ricordo del luogo amato, di un'infanzia felice” l’inesorabile passato che non ha lasciato che polvere; la tristezza che genera speranza sono le tematiche care al drammaturgo che ha autografato precedenti opere come lo Zio Vanja. D’altronde le varie riflessioni di Anton Čechov sull’arte drammatica sono espresse in alcune sue lettere indirizzate al redattore e critico A.s. Suvorin, ove evidenzia il fatto che “l’artista non dovrebbe essere il giudice dei propri personaggi e dei loro discorsi, ma solo un testimone imparziale”. Ed è esattamente così che appaiono le figure umane che si muovono sul palcoscenico dell’Argentina diretti dalla bacchetta magica di Alessandro Serra. Questi restituisce una fedeltà totale al testo originario, tale da marcare il carattere di ogni singolo personaggio senza alcuna alterazione. Semmai giocando con una commistione di generi: dalla commedia dell’arte -si veda la caricatura eccessiva di alcuni ruoli come Piscik, l’indebitato scroccone aristocratico, dormiente e poco razionale; o dall’uso dei tre tableau vivant, il primo a inizio spettacolo quasi di rimando a “La colazione sull’erba di Manet”, momento di distensione, non a caso, su un giardino- a un teatro di matrice naturalista, nato nella seconda metà dell’Ottocento, influenzato dal realismo e dal Naturalismo, in particolare dal contributo teorico di Émilie Zola, il quale sosteneva la necessità di dare anche al teatro un quadro autentico del mondo in tutti i suoi aspetti compresi quelli quotidiani, brutti e sgradevoli. Čechov non si sottrae a questo e il regista Serra capisce questa intenzione fino a plasmarla in un gioco: quello del teatro umano. Sì: perché lo spettatore è avvolto nel divertimento che l’artefice teatrale ha compiuto nella mise en scène, proprio come se fosse in un waltzer russo, dove si balla a ritmo onirico, lo stesso che si evince dalla piéce in tutta la sua durata. È un divertimento corale composto da una semplicità scenica: tre teli, due laterali e uno da fondale, varie sedie di ferro, come a voler sottolineare lo scheletro di ciò che rimane dell’aristocrazia, quello stesso che con amore e devozione l’anziano servo Firs porta sulla propria schiena; un ombrello appeso a un gancio, la speranza, l’ultimo focolaio di calore per un briciolo di salvezza, e l’intero gioco di luci e ombre che stanno a designare l’impalpabile, ciò che non c’è più, l’inarrivabile e l’anima stessa degli abitanti di quel giardino: ombre, appunto, oramai, ricordi. Come se ci trovassimo nella stanza dei bambini, del famoso gioco “facciamo che io ero…e non sono più…e non sono mai stato, in realtà”. Ecco che dal comico, percepito, accarezzato, rubando giusto una piccola risata allo spettatore, si arriva alla malinconia, quella tipica di Čechov, che non è da paragonare all’oscurità di Dostoevsky, in “Memorie del sottosuolo”. Semmai a tentativi fugaci di felicità senza rammarico alcuno, se non quello di aver comunque vissuto, di averla gustata quella vita, nonostante tutto, anche un fallimento più volte presagito. Serra tutto questo lo ha capito e riportato in un vortice di umiltà e dolcezza come dentro a un’altra realtà, appunto, quella del gioco teatrale che desta e addormenta.


Il giardino dei ciliegi

di Anton Čechov
uno spettacolo di Alessandro Serra

Il giardino dei ciliegi
di Anton Čechov
uno spettacolo di Alessandro Serra
con Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano,
Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini
Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina Sperlì
Bruno Stori, Petra Valentini
regia, drammaturgia, scene, luci, costumi Alessandro Serra

Maria Francesca Stancapiano 

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