Ha debuttato mercoledì 27 aprile e rimarrà in scena fino a domenica primo maggio, nella bella e suggestiva cornice del Teatro di Documenti di Roma, la mise en space della pièce teatrale “Il Rondò del Caffè Ristoro” di Stefania Porrino, autrice e regista.
In scena gli attori della Compagnia del Mutamento – Giulio Farnese, Nunzia Greco, Evelina Nazzari, Alessandro Pala Griesche, Carla Kaamini Carretti – ai quali si è aggiunta per l’occasione Silvia Montobbio.
Quest’ultima ha qualcosa dello spettacolo che si spera verrà e qualcos’altro della lettura del testo che precede ogni forma dello “stare in piedi” e, allo stesso tempo, non è né una rappresentazione né tantomeno una vera e propria lettura interpretata. Forse, parafrasando un famoso cartone animato della mia infanzia, una mise en espace “sa solo quello che non è" ed è per questo che diventa complicato esprimere valutazioni che vadano oltre una prima impressione più incompleta del solito.
È difficile andare oltre le doverose parole sulle evidenti capacità articolatorie e vocali degli interpreti chiamati in causa poiché i loro corpi e la loro gamma espressiva e oggettivamente limitata da una modalità di lavoro, come dicevamo, ibrida e, per la sua intrinseca natura, poco incline a regalare libertà agli attori chiamati in causa.
Si può, in questi casi, provare ad imbastire una riflessione sul testo restituito, che, ad un ascolto non semplicissimo, risulta comunque gravido di spunti molto interessanti.
Un anziano proprietario di un Caffè nella provincia romana – il Caffè Ristoro del Titolo -, nostalgico di un glorioso passato da luogo di ritrovo di artisti in voga e con un presente decisamente più povero in termini economici ed esperienziali, conduce la sua stanca attività prendendosi cura dei suoi sparuti avventori, in un paese anch’esso lontano dai fasti di un tempo.
E in questo ben definito contesto narrativo, che pare essere fertile cornice di personaggi sui quali si nutrono importanti aspettative in vista di un allestimento che ci si augura vedrà presto la luce, tre donne, tre esistenze che rappresentano tre età della vita, tre figure legate a doppia mandata al mondo della musica e, quindi, tra di loro, affrontano sfide all’apparenza molto diverse, ma con più punti in contatto di quanto si possa inizialmente immaginare.
Il testo, si avverte la necessità di ripetersi, incuriosisce. E non poco.
Questo primo disegno registico, invece, probabilmente adattato alla particolare conformazione dello spazio nella quale l’evento si è svolto, fa scaturire perplessità che sarebbe bello dissipare alla prossima occasione di messa in scena tradizionale.
Tralasciando gli aspetti prossemici, sono anche le partiture dialogiche ad infondere un senso di rallentamento che non giova al mantenimento di un attenzione degna di uno spettatore interessato.
La regista gioca molto spesso su frasi interrotte – ad arte – sulle quali si sovrappongono altri inserti orali che contribuiscono a far avanzare in parallelo scene differenti.
La trovata, abbastanza ripetuta, appesantisce il fluire di una storia che, a sensazione, ha un potenziale ben più grande di quello espresso nella circostanza data.
Per concludere questa prima “cronaca critica” di un lavoro al quale vanno augurate, sotto nuove vesti, numerose occasioni di apertura al pubblico, fa piacere segnalare le belle luci di Paolo Orlandelli, eleganti nel disegnare i vari e interessanti momenti drammaturgici della storia.
Lorenzo Sorgi esegue dal vivo musiche grintose che, per la loro stessa natura, rappresentano un ottimo viatico per gli step successivi di questa proposta.
Purché, la prossima volta, si decida di non restare in una terra di nessuno nella quale non si riescono a scorgere con chiarezza elementi identificativi certi.
Giuseppe Menzo
© Riproduzione riservata