Godot: Mistero Perenne Ed Irrisolvibile. Come La Vita.

Godot: Mistero Perenne Ed Irrisolvibile. Come La Vita.

La scelta (sullo spettacolo, intendo) è quella di utilizzare la lingua napoletana, carica, tra le altre cose, di una tragica arrendevolezza all’esistenza

stampa articolo Scarica pdf


È andato in scena sabato 23 e domenica 24 luglio, presso l’arena estiva del Teatro Tor Bella Monaca, all’interno del ricco cartellone multidisciplinare della rassegna ospitata in questo stesso spazio – il “Tor Bella Monaca Teatro Festival”, lo spettacolo di Samuel Beckett “Aspettando Godot” con la regia di Massimo Andrei e l’interpretazione di Lello Arena, Massimo Andrei, Biagio Musella, Elisabetta Romano, Esmeraldo Napodano, Angelo Pepe e Carmine Bassolillo.

E qui inizia il bello, perché recensire uno spettacolo che mette in scena uno dei testi più aperti – più di quanto non lo sia normalmente un ottimo testo teatrale – della Storia dell’Umanità può voler dire limitarsi ad una resa cronachistica di quanto si è visto oppure abbandonarsi al difficile tentativo – aperto anch’esso ovviamente – di dare contenuto tramite le proprie impressioni da voyeur autorizzato a qualcosa di scritto che riguardi un lavoro che per la sua stessa natura si riempie – molto più della media, come già scritto - della visione del regista che prova ad dare una direzione a tutte le parole che compongono l’opera e di quanto fatto dagli attori che si calano nel pieno vuoto – o vuoto pieno – di una drammaturgia che sfugge ad ogni tentativo di solido acchiappo.

Per manifesta incapacità di perseguire la seconda strada, si prova a dar forma alla prima – il resoconto cronachistico – nella speranza di rendere giustizia allo sforzo utile di tutte le parti in causa coinvolte.

La scelta (sullo spettacolo, intendo) è quella di utilizzare la lingua napoletana, carica, tra le altre cose, di una tragica arrendevolezza all’esistenza, per rimarcare con veemenza la natura aleatoria e concreta allo stesso tempo di un “racconto” che non offre appigli di sorta.

“Chi è Godot?” (qui peraltro evocato con una pronuncia che non elide la T finale) e/o “Cosa vuole Godot?” sono le classiche domande che sgorgano dalle testi degli spettatori che si godono i 100 minuti di rappresentazione animati da attori che superano quella che probabilmente una delle prove più complicate per chi fa questo mestiere.

Lo spettacolo travalica il concetto del ritmo facendosi forza di uno che pare inventato apposta per lui stesso e si sviluppa in un eterno presente che contraddice le indicazioni testuali e – conseguenzialmente – orali che parlano di giorni che nascono e quindi muoiono.

Gli attori svolgono il loro compito con brillante precisione, ben consci probabilmente che solo un’ascetica dedizione alla causa consente di poter giungere alla fine senza librarsi in aria o sprofondare nei crateri delle righe beckettiane.

Anche perché la sensazione che nasce dall’ascolto di queste parole è, per l’appunto, quella di uno spaesamento gravido di infinità possibilità o dell’assoluto vuoto e in questo pericoloso gioco di contrapposizioni l’unica cosa che rimane da fare è probabilmente un ancoraggio cieco e disperato a delle funzioni biologiche che rimangono il punto di partenza di vite che non avranno ancora capito verso dove dirigersi, ma che possono provare a darsi una possibilità – come quelle dell’eventuale arrivo di questo fantomatico Signore senza volto e senza corpo – per tentare di svelare il segreto dell’esistenza.

Giuseppe Menzo

© Riproduzione riservata