Silvia Mazzotta

Ciò che appare di un personaggio, come si muove, quello che dice, quello che fa, è solo la punta di un iceberg, lì sotto c’è un mondo che l’attore deve immaginare ed esplorare.

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Capelli ribelli biondi e occhi azzurro cielo amabilmente conditi da un sorriso solare. Silvia Mazzotta, attrice di teatro e di cinema, si presenta a noi nella sua veste migliore.

Recentemente è stata impegnata a teatro in La Tredicesima Notte (regia di Imogen Kusch) nel ruolo di Ermione, la cui storia e il cui destino si intreccia con quello di altri sette “rifugiati shakespeariani”, e sul grande schermo nel docufilm E-bola di Christian Marazziti, presentato alla scorsa festa del Cinema di Roma nella sezione “Risonanze”.

Silvia, “siamo tutti molto più complessi di quello che sembriamo”. Questo il motto che apre la pagina di presentazione del tuo curriculum. Ti va di raccontarci cosa significa per te questa frase?

E’ un motto semplice e profondo al tempo stesso e anche solo per questo mi piace condividerlo! Ci sono poi diversi motivi che mi legano a questa frase. Innanzitutto è la battuta chiave di Jennifer, il mio personaggio in uno spettacolo che ho molto a cuore: “Gli amanti del nuovo mondo”; la battuta è stata pensata dalla regista Imogen Kusch per il momento in cui Jennifer si rende conto che in questo “nuovo mondo” non c’è spazio per l’Amore, poiché tutto deve essere relegato alla vita materiale. Ho poi usato questa frase nel curriculum perché parla anche del mio modo di pensare il lavoro dell’attore, che deve confrontarsi prima di tutto con se stesso e con la complessità dell’animo umano, che è anche la complessità dei personaggi; ciò che appare di un personaggio, come si muove, quello che dice, quello che fa, è solo la punta di un iceberg, lì sotto c’è un mondo che l’attore deve immaginare ed esplorare.  C’è, infine, un legame molto personale tra questa frase ed un evento che, nel 2003, ha stravolto la mia vita e mi ha scosso nel profondo, proprio pochi giorni prima di andare in scena come Jennifer e dire insieme a lei: “Siamo tutti molto più complessi di quello che sembriamo”.

Ma cominciamo dal principio. Una laurea con il massimo dei voti in Economia e Commercio può avere un peso non indifferente e condizionare le scelte in ambito lavorativo. Come sei riuscita a sganciarti da questo percorso per intraprendete la difficile avventura dell'attore?

Mi ero appena laureata ed ero in attesa di andare a fare un master a Londra in Economia dello Sviluppo per poi lavorare in qualche ONG, questo era il mio progetto. Galeotto è stato quel periodo sabbatico, durante il quale una mia amica del laboratorio di teatro, che avevo frequentato con passione per diversi anni e avevo interrotto proprio in vista della scrittura delle tesi laurea, mi ha invitato ad assistere alle prove di un suo spettacolo diretto da Luca Monti (che sarebbe poi divenuto il mio primo regista ufficiale). In quell’occasione mi sono limitata a dare una mano dietro la consolle come datore luci: è stata un’esperienza molto divertente ed “illuminate”…in tutti i sensi! Mi sono nuovamente trovata con la testa e con il cuore a vivere una passione che, razionalmente, consideravo solo un hobby ma che inevitabilmente ha preso il sopravvento fino a trasformare la mia vita. Di lì in poi si sono susseguiti una serie di eventi ed è stato come uno “Sliding Doors”. Fino a qui ho raccontato la parte poetica ma non posso nascondere che non è stata una decisione facile: “Butto all’aria anni di studi? Dov’è finito il desiderio di lavorare nelle organizzazioni internazionali? E poi hai già una certa età e il mestiere dell’attore è difficile ed in più tu non hai nessuna formazione accademica! E a casa? Non lo accetteranno mai!”. Tanti pensieri e non poche paure ma è stato veramente, ripeto, uno “Sliding Doors”, ho capito che la mia vita doveva andare in quella direzione e ci sono andata.

Una classica domanda di rito a questo punto è la seguente: il teatro è stato il tuo sogno fin da bambina o è un desiderio che hai maturato poi crescendo?

Da bambina volevo fare la ballerina. Facevo ginnastica artistica e volevo fare la ballerina. Il mio gioco preferito però era quello di inventare e preparare, insieme a mia sorella e alle mie cugine, degli spettacoli teatrali ai quali i nostri genitori erano poi costretti ad assistere, versando anche una piccola mancia obbligatoria a sostegno della “compagnia”. Mia cugina, che era la più grande, faceva la regista e noi recitavamo. Avevamo dai 5 ai 10 anni e ci divertivamo così, per la gioia dei nostri genitori che ci vedevano scomparire per ore chiuse in camera per le prove dello spettacolo. Quindi da bambina volevo fare la ballerina, mi divertivo a recitare, in ogni caso volevo dare spettacolo! Poi la mia scelta di essere attrice, come ho già raccontato, è stata maturata in un momento molto successivo.

Collegandoti al momento dell'infanzia e dell'adolescenza, quando rivestivi ancora il ruolo di solo spettatrice, qual è il tuo primo ricordo del teatro, o quello a te più caro che conservi nel cuore?

Ho un ricordo molto molto nitido di quando sono andata con tutta la famiglia a vedere al Teatro Eliseo “I Masnadieri” di Schiller , con Gabriele Lavia e Umberto Orsini. Ero già stata a teatro per lo più a vedere dei musical e quella era la prima volta che mi confrontavo con un testo così impegnativo. Avevo 11 anni. L’occasione era nata dal fatto che un amico di mio padre, a sua volta amico di Orsini, ci aveva invitato alla spettacolo. Ricordo che eravamo seduti tra le prime file della platea e io non riuscivo a staccare gli occhi dalla scena, dagli attori. Ero completamente ipnotizzata da quello che succedeva sul palcoscenico. Alla fine dello spettacolo, durato sicuramente qualche ora, siamo andati a salutare gli attori: ho molto nitida l’immagine di Lavia riflessa nello specchio del suo camerino mentre si strucca dal cerone bianco che aveva utilizzato per la scena finale, quella della morte. Io lo guardavo completamente imbambolata, tanto che lui si è girato verso di me e ha detto: “Ma ancora così sveglia sei a quest’ora?”. Sebbene poi il mio teatro non sia andato proprio in quella direzione, questo è uno dei primi ricordi di spettatrice che conservo nel cuore.

A partire dal 1994 inizi a rafforzare le tue competenze in ambito attoriale partecipando a numerosi laboratori teatrali di formazione, workshop e stage. Gli insegnanti sono scultori che modellano la mente e il corpo fatta di creta dei loro studenti per aiutarli a trovare una forma propria. Quale tuo insegnante dunque le ha lasciato il segno in maniera più incisiva?

La mia formazione di attrice, per ovvi motivi, non è stata né tradizionale né accademica e così ho “rubato” molto del mestiere dall’esperienza; da quella di palcoscenico e da quella del “dietro le quinte”, quando assistevo alla prove degli spettacoli inseriti nelle Rassegne e nei Festival organizzati con Marte 2010 (www.marte2010.net ). Parallelamente ho partecipato a molti stage e workshop e  continuo a farlo ancora oggi: appena posso non vedo l’ora di dedicare un po’ di tempo alla formazione e alla ricerca! E’ un lusso a cui non rinuncerò mai sia perché “non si finisce mai di imparare” (è banale ma è così)  sia perché è un continuo stimolo che arricchisce la mia “forma” di attrice. Per tornare alla domanda, quali insegnanti hanno lasciato il segno? Sicuramente Salvatore Chiosi che è stato il mio primo insegnate di teatro (è sua la responsabilità!); poi, come dicevo, tutti i registi che mi hanno diretto come attrice e con i quali ho collaborato fuori dalla scena; tra i maestri  che hanno plasmato la mia “forma” di attrice c’è sicuramente Josè Sinisterra – aver conosciuto la sua ricerca di autore, regista e pedagogo è stato molto illuminante - e Joel Rooks, un insegnante strepitoso che per primo mi ha avvicinato al metodo Meisner, che ho approfondito poi direttamente a New York al William Esper Studio, dove ho incontrato altri bravissimi insegnati, tra cui William Esper stesso e Linda e David Laundra per l’acting on camera.

Il teatro è costituito intrinsecamente con la fisicità degli attori. Non è forse un caso che lei frequenta anche diversi corsi di danza e allena la voce con delle lezioni di canto. L'uso consapevole della propria corporeità, ma anche la fatica fisica dovuta agli sforzi e alla tensione muscolare sul palcoscenico, sono elementi caratterizzanti di chi fa teatro ma forse poco percepiti da chi è oltre la quarta parete. Lei come vive il rapporto con il suo corpo, e quanto questo influenza la sua pratica attoriale?

Come il musicista ha cura del suo strumento, il pittore dei suoi pennelli, così come attrice ho la necessità di avere cura del mio corpo, della mia voce, di me stessa. Ho imparato a farlo senza giudicarmi troppo. Il training fisico mi serve per esplorare i miei limiti e le mie potenzialità e ad imparare ad usarle all’occorrenza per far vivere un personaggio. Ci vuole amore e cura e, finché mente e corpo riescono a trasformarsi insieme e rimanere in sintonia, non ci sono limiti alla possibilità di usare il mio strumento! Ma è necessario un allenamento costante. Per me, praticare attività fisica e sportiva è importante: non ritengo sia necessario avere un corpo atletico per fare questo mestiere ma avere muscoli allenati, riflessi pronti, resistenza e agilità aiuta ad affrontare la fatica fisica del palcoscenico e a ricoprire una gamma più ampia di ruoli. Nel mio quotidiano ho sempre fatto sport, poi mi sono appassionata alla danza contemporanea e negli ultimi anni pratico regolarmente yoga. Quando lavoro ad uno spettacolo, le prove generalmente prevedono un training fisico e vocale. Mi è poi capitato di dover allenare specifiche abilità, come quando ho lavorato intensamente con Maria Borgese sull’espressività corporea e sull’improvvisazione fisica per lo spettacolo “Perché ce l’ho tanto con …”; o quando mi sono allenata con Francesca Olivi, la mia compagna di scena in “Marathon” per raccontare la profonda storia di due amiche che si allenano per partecipare alla maratona di New York; o quando mi sono iscritta ad un corso di flamenco per entrare nella corporeità, nella mentalità e nell’atteggiamento fisico di Carmela per lo spettacolo “Ay Carmela!”,. Direi di sì: il lavoro sul corpo è decisamente fondamentale nella mia pratica attoriale!

La sua prima vera esperienza sul palcoscenico è legata a Luca Monti, regista di Karne Macinata, con il quale collaborerà attivamente molto anche in futuro. Le sue scelte sembrano però orientate a un teatro che oscilla dall'esistenziale al civile, dei titoli fra tutti Faust a Hiroshima, Ay Carmela e l'ultima fatica La Tredicesima Notte. Lei si trova d'accordo con questa visione?

Penso che il teatro, l’arte in generale, debba rispecchiare metaforicamente la realtà e le sue contraddizioni, aprire riflessioni e punti interrogativi… solleticare emozioni e visioni e può farlo con ironia, comicità o drammaticità. In ogni caso, e qualunque sia la forma, per me è fondamentale che abbia una funzione esistenziale o civile, ed in questo senso gli spettacoli che avete citato, a cui ho dedicato molto lavoro anche a livello produttivo ed organizzativo, rientrano sicuramente in questa categoria. Ma anche titoli apparentemente più leggeri, dove ricoprivo fantastici ruoli comici, o meglio tragicomici, rispecchiano comunque questa mia scelta, che è una scelta di contenuto più che di stile. In sostanza si può emozionare, commuovere, far riflettere con la risata, con l’ironia, con la drammaticità, l’importante è lasciare qualcosa! In questo senso per me il teatro è esistenziale. Se poi tocca anche temi civili che mi stanno a cuore allora sono ancora più felice!

Parallelamente all'attività professionale, si è occupata anche di un progetto intitolato PARKIN-ZONE, ossia un laboratorio integrato di spettacolo e teatroterapia con i malati di Parkinson e altre malattie neurodegenerative del sistema nervoso centrale. Ci racconta cosa si intende per teatroterapia e questa sua esperienza in merito?

Il progetto è nato in seno alla mia compagnia Klesidra (www.klesidra.org ) e si è poi ampliato fino alla creazione di una struttura autonoma, la Onlus Parkinzone (www.parkinzone.it); l’idea è nata più di 10 anni fa dall’incontro tra Imogen Kusch e il Dott. Nicola Modugno, un caro amico nonché neurologo esperto in questa malattia. Abbiamo iniziato coinvolgendo in un laboratorio teatrale alcuni pionieri pazienti di Nicola, dei fisioterapisti e qualche infermiere volenteroso; adeguavamo man mano gli esercizi alle caratteristiche e alle esigenze del gruppo. Volevamo capire se l’attività teatrale poteva influenzare la qualità della vita delle persone affette dal Morbo di Parkinson. Quando parlo di “qualità della vita” intendo non solo gli aspetti prettamente funzionali che vengono sollecitatati durante i laboratori (il movimento, l’espressività facciale, la capacità di articolare, che spesso purtroppo sono compromesse della malattia) ma anche quelli legati al benessere emotivo e alla necessità di fare fronte alla depressione, parte integrante della patologia anche come effetto collaterale dei medicinali. L’analisi clinica di tanti anni di lavoro ha confermato una efficace funzione complementare dell’attività teatrale alla terapia farmacologica e oggi questa cosa, che inizialmente sembrava una semplice “pazzia”, è riconosciuta al livello medico. Ma non finisce qui! Nel corso degli anni il progetto si è ampliato e oggi facciamo un lavoro integrato di teatro, movimento, voce ed arte grazie ad una appassionata equipe di professionisti in queste discipline artistiche; abbiamo creato un consolidato metodo di lavoro; partecipato ad una ricerca con l’intento di individuare indicatori scientifici che potessero confermare ciò che ormai ci è evidente come dato clinico: ovvero che il lavoro fisico ed emozionale che portiamo avanti nei nostri laboratori stimola la plasticità neuronale (del cervello) e produce oggettivi benefici di supporto e rallentamento nella progressione della malattia. Siamo in attesa dei risultati ufficiali di questa ricerca. Nel frattempo continuiamo il nostro lavoro con la soddisfazione di vedere che i “pazienti” non rinunciano mai agli appuntamenti settimanali con i nostri laboratori. E questo, al di là di tutto, vale mille volte di più di qualsiasi riconoscimento scientifico.

Tra le varie esperienze, Silvia è anche socio fondatore della compagnia teatrale Klesidra, con la quale lavora sia come attrice che come organizzatrice di progetti di spettacolo, formazione e teatro-terapia a livello nazionale ed europeo. Il suo impegno però non si limita la teatro, bensì travalica le scene per approdare anche sul grande schermo. Cinema e teatro, i suoi due grandi amori?

Diciamo che il teatro è il mio “primo grande amore” e il cinema, in questo momento, è il mio “amante”, nel senso che è un rapporto fresco, recente, appassionato e che sente la necessità di approfondimento ed esplorazione. Ho lavorato sia sul piccolo che sul grande schermo in qualche fiction e in diversi medio e cortometraggi, oltre che nell’ultima esperienza al cinema con il film Ebola, ma sicuramente il mio rapporto con la macchina da presa è più recente e meno solido di quello con il palcoscenico. Come dicevo quindi il grande amore e l’amante ma non c’è rivalità o gelosia tra loro anzi probabilmente diventeranno entrambi grandi amori e andremo a convivere in tre sotto lo stesso tetto. In questo senso non sono monogama!

Il pubblico è uno dei grandi discrimini tra le queste due forme d'arte: mentre nel teatro la presenza del pubblico è costante e vitale, durante le riprese cinematografiche esso è totalmente assente, la cui visione è mediata dalla macchina da presa. Questo influisce sul suo personale modo di impostare la recitazione? 

L’essenza del lavoro secondo me è la stessa: vivere onestamente (realmente) in una situazione immaginaria in ascolto e in totale connessione con quello che succede. In teatro il pubblico è come un partner di scena che cambia di sera in sera, modifica la sua energia e i suoi rimandi e quindi è una variabile molto forte che, inevitabilmente, influisce sullo spettacolo perché ne è parte integrante. Sul set invece c’è la telecamera, che è come un singolo spettatore inanimato che non mi perde mai di vista e può allontanarsi e arrivare anche vicinissimo a me, a seconda del tipo di inquadratura. La telecamera è un partner che inizialmente mi metteva a disagio, forse perché lo avvertivo freddo e invadente; piano piano ho imparato a conoscerla, ad immaginarla umana, a creare con lei ogni volta una relazione diversa e anche molto intima, perché quando ti “guarda” da vicino, in primo piano, ti legge nell’anima, coglie il minimo battito di ciglia, movimento delle labbra, ogni piccola cosa. A tu per tu con la telecamera, la verità si legge negli occhi. Non è possibile mentire o distrarsi o perdere la connessione con la situazione immaginaria che stai vivendo. Tutto questo per dire che se un attore è allenato all’ascolto e alla relazione, modifica istintivamente il suo modo di recitare con il pubblico o con la telecamera. Poi, la reale differenza tra set e teatro, secondo me, non è tanto nel modo di impostare la recitazione, quanto piuttosto nella modalità di lavoro e nel modo di costruirlo e prepararlo! Insomma la finalità del gioco è la stessa, sono le regole che cambiano tra cinema e teatro! E queste regole, ogni attore che voglia partecipare al gioco, deve studiarle, conoscerle e sperimentarle…per poi cominciare a divertirsi!

La sua esperienza nel docufilm E-bola deve aver richiesto una grande partecipazione emotiva, visto la tematica scottante e umanamente toccante. Lei come ha vissuto questa prova, sia in ambito lavorativo che personale? 

Per me è stata una bellissima esperienza. Ho avuto l’opportunità di lavorare come protagonista in un film internazionale, girato in lingua inglese, che affrontava una tematica molto attuale e sentita. Talmente attuale che abbiamo dovuto adeguare in corsa la sceneggiatura e i suoi riferimenti scientifici ai fatti di cronaca. Abbiamo girato tra gennaio e febbraio del 2015 ed in quel periodo purtroppo il tema era diventato molto caldo: quotidianamente arrivavano tragiche notizie dall’Africa;  si registravano i primi casi di malati anche in Europa che ci mettevano di fronte ad una tragedia di dimensioni globali; la corretta informazione sulle modalità di prevenzione e gestione della malattia, uno degli obiettivi principali del nostro film, era divenuto un tema quanto mai attuale e di fondamentale importanza sociale e sanitaria.  In quel periodo dovevamo girare alcune scene nel reparto di isolamento dell’ospedale Spallanzani di Roma, ma non sapevamo fino all’ultimo se sarebbe stato possibile perché era proprio lì che il “paziente zero” Fabrizio Pulvirenti, il medico italiano di Emergency contagiato dal virus, era ricoverato. Particolare era anche la coincidenza che nella sceneggiatura del film succedeva una cosa simile ad uno dei protagonisti della storia!  Spesso dopo una giornata di set, mi incontravo fino a tarda notte a casa del nostro coach insieme al regista e gli altri protagonisti del film e, proprio come i nostri personaggi, una task force internazionale di ricercatori, lavoravamo con precisione certosina all’adeguamento della sceneggiatura ai fatti di cronaca. Quando, per dirla con Shakespeare, “Realtà e finzione si mescolano”! Per interpretare il ruolo della Dott.ssa Sara Bianchi, in prima linea nelle missioni umanitarie in Africa, ho avuto la necessità di confrontarmi con chi questo mestiere lo fa veramente, sacrificando spesso vita e affetti personali ad un nobile scopo. Il film racconta, sullo sfondo dei fatti di cronaca, una storia umana fatta di amori, amicizie, passioni e speranze. Nel ruolo di Sara ho dovuto girare delle scene emotive e personali molto intense, nelle quali spero di aver trasmesso la dignità, la forza e la profonda umanità di questo personaggio.

Passando ad argomenti decisamente più leggeri, qual è il suo rapporto con i social network? Li valuta come una trasformazione positiva in grado di aumentare le possibilità di connessione e comunicazione o come un media che ha distorto il modo di vedere il mondo, e quindi come un ostacolo per il teatro, così legato alla trasmissione orale?

Ho un rapporto un po’ difficile con i social network ma sto cercando di migliorare! Il fatto è che non riesco proprio ad usarli in modo quotidiano, anche perché ho per scelta deciso di non scaricare le App sul telefonino così quando li uso ho una montagna di risposte da dare, richieste arretrate, insomma diventa un lavoro che mi annoia e ho la sensazione di perdere tempo inutilmente, preferisco una telefonata o una chiacchierata dal vivo! Però mi rendo conto benissimo che sono utili per rimanere in contatto con persone lontane e che sono fondamentali per chi fa il mio lavoro e non solo! Grazie ai social network è possibile oggi promuovere eventi ed iniziative senza costi e in modo molto efficace e in tempo reale. E anche il teatro, soprattutto quello indipendente che notoriamente non ha sufficienti risorse economiche da investire in promozione e pubblicità, può trarre solo benefici dall’utilizzo di questi nuovi strumenti di comunicazione. Detto questo, ogni cosa va usata con buon senso ed il buon senso mi porta ad escludere la possibilità di “postare” la mia vita o di coltivare i miei rapporti personali principalmente o esclusivamente tramite i social. Però spesso grazie ai social trovo occasioni di incontro: per andare a teatro, al cinema, ad un concerto, ad una festa, ad una mostra; riesco a trovare informazioni e approfondire temi che mi interessano insomma oggi si passa comunque da lì per “socializzare”, l’importante è poi farlo dal vivo e non in modo virtuale!

A questo punto Unfolding Roma la ringrazia molto per la sua disponibilità e in chiusura le chiediamo se ha già in preparazione qualche nuovo spettacolo e se vuole dare ai nostri lettori qualche piccola anticipazione. Grazie, e a presto.

Per prima cosa grazie a voi! Rispondere a queste domande mi ha fatto molto riflettere e anche fare un piccolo viaggio a ritroso nel mio passato, remoto e prossimo. Guardando al futuro..a fine febbraio girerò un cortometraggio dal titolo “Non è volare, ma cadere con stile”, una storia ironica e poetica che racconta dal punto di vista di un parkinsoniano il valore dell’esperienza che facciamo con Parkin-zone, progetto di cui vi ho ampliamente parlato in questa intervista. Sempre per la telecamera, c’è nell’aria un altro cortometraggio, che dovrei girare prima dell’estate, su un tema molto impegnativo come la violenza sulle donne. Passando al teatro, oltre ad una serie di appuntamenti in occasione di Festival estivi con lo spettacolo “La Tredicesima Notte”,  ad aprile (non vedo l’ora!) io e Giorgio Santangelo, diretti da Imogen Kusch, inizieremo le prove che ci porteranno nuovamente, a dieci anni di distanza, ad indossare i panni  di Midi e Bucky nel divertentissimo, tragico e ironico spettacolo “Tarantula’s dancing”.

Valentina Zucchelli

ph copertina Fabio De stefano

ph spettacolo Ermione: Aurora Leone e Cristina Cusmano 

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