Si intitola semplicemente "Premier League" e anche i non calciofili hanno sentito almeno una volta queste due parole accostate. Significano magia, competitività, spettacolo, pubblico, stadi funzionali e grande passione anche oltremanica. E' il campionato inglese, iniziato un giorno del 1888 per merito di un dirigente che si annoiava a forza di amichevoli e ha inventato il formato del campionato come lo conosciamo oggi. Nicola Roggero, decano dei telecronisti di Sky Sport che ha commentato centinaia di partite di Premier League, ci racconta la sua ultima opera letteraria, che attraversa più di un secolo di football, dallo spontaneismo di un tempo al milionario campionato di oggi.
Nicola, per prima cosa, da dove nasce il desiderio di scrivere questo libro che attraversa 120 anni di calcio inglese?
Nasce dalla Rizzoli che ha creduto nella popolarità sempre più alta della Premier League e ha deciso di farmi scrivere questa storia. Inizialmente doveva essere incentrata sulla parte moderna, poi siamo andati anche sull'antico, perché è una parte di calcio che ha sempre fascino.
E questa sorta di romanzo calcistico inizia con la figura di William McGregor. Chi era e che Inghilterra era all'epoca?
Un'Inghilterra vittoriana, morigerata nei costumi, secondo le regole imposte da questa monarca. Era al massimo della sua espansione territoriale, l'impero occupava tre quinti del mondo, era una Inghilterra molto sicura di sé, come tra l'altro più o meno è sempre rimasta. Un paeseinnamorato dello sport, che aveva creato lo sport moderno tramite due filoni: da una parte gli sport d'élite, cioè rugby, canottaggio, cricket, tennis. E dall'altra un gioco popolare, con le squadre di Londra protagoniste ma che ha trovato sviluppo soprattutto nelle Midlands e nel nord del paese. McGregor era un imprenditore tessile cresciuto a Birmingham, presidente dell'Aston Villa. All'epoca c'era solo la Coppa d'Inghilterra come competizione ufficiale, e varie partite amichevoli club che si sfidavano accordandosi economicamente. Ma un'offerta migliore dopo un accordo già stabilito, poteva far cambiare le cose: il club in questione, ovviamente senza avvertire, non si presentava scegliendo l'incontro più remunerativo, e a McGregor capitò per la quinta volta consecutiva un incontro annullato. A questo punto la seccatura fu tale che si inventò un torneo con partite di andata e ritorno.
Oltre a essere l’autore, sei anche il lettore del tuo stesso libro. C’è una storia che mentre scrivevi ti ha colpito o fatto riflettere più delle altre?
Le storie che non conoscevo o conoscevo meno. Non conoscevo nulla del fatto che fosse nato per McGregor, sapevo qualcosa di Dixie Dean, bomber dell'Everton, e di Herbert Chapman, allenatore dell'Arsenal, due personaggi straordinari. Altre le conoscevo, ma è stato bello scrivere soprattutto di personaggi con più caratura, se penso per esempio a Shankly, a Clough, a Stanley Matthews, alla storia dei "Busby babes". Sono storie che dovevo solo approfondire.
Racconti anche del Mondiale del 1966, che si inserisce nel periodo della "swinging London", i quali cambiamenti furono assorbiti dal football inglese. In che modo?
Direi che fu grazie soprattutto George Best. Il calciatore del Manchester United fece da involontario tramite. Tenete presente che noi eravamo abituati fino agli anni Cinquanta a giocatori con brillantina nei capelli, più o meno uniformati e giocatori che facevano epoca unicamente per la qualità in campo. Con Best, per il suo carattere così ribelle, la bellezza, le avventure tra donne, alcool e auto veloci, il calcio è uscito per la prima volta dalla back-page, quella che ospita sempre le notizie di football nei giornali inglesi, e George Best ha iniziato a fare notizia in modo che il calcio diventasse roba da prima pagina, con gossip e vicende giudiziarie. E poi era un'epoca ovviamente particolare: clima gioioso, musica sugli scudi con i Beatles, i Led Zeppelin, i Rolling Stones. Londra era al centro dei cambiamenti. E il calcio è sempre andato di pari passo con l'andamento della società e del costume.
Da una Manchester all'altra. Nel libro racconti anche del City che vinse negli anni Sessanta, prima di un lunghissimo digiuno. Dire che si meritavano gli sceicchi e tutti i successi degli ultimi anni, può essere giusto?
Secondo me no. Il City aveva una sua nobiltà, anzi, direi che per molti anni è stata la principale squadra di Manchester, soprattutto prima della seconda guerra mondiale. C'è un episodio per il quale durante la guerra viene bombardato Old Trafford, e lo United viene ospitato al Maine Road, stadio del City. Quest'ultimo è stato messo in secondo piano prima da Busby e Ferguson, ma è anche vero che ha attraversato grandi periodi negli anni cinquanta grazie a un portiere tedesco, Bert Trauttmann, un portiere tedesco. All'epoca non si pensava che in Inghilterra potesse giocare un portiere che veniva dalla Germania. Poi il City ha avuto Joe Mercie, Summerby, Dennis Law, protagonista di un gol di tacco allo United nel derby che fu decisivo per la loro retrocessione dopo aver passato anni vincenti con i Red Devils. Ma non aveva il dente avvelenato, infatti dopo quella rete non esultò. La sua statua è ancora fuori da Old Trafford.
Un altro personaggio centrale di questa epoca è stato Alex Ferguson. "Smontava e rimontava le squadre", hai scritto. Il Manchester United, oggi, paga ancora lo scotto della fine di questa era.
Quando va via un genio non trovi subito un altro genio a sostituirlo. Anche dopo l'epoca di Matt Busby il Manchester United non aveva vinto per 26 anni il campionato. Quando va via un punto di riferimento di quel tipo diventa difficile riorganizzare tutta la macchina, oltre agli errori clamorosi fatti dai dirigenti ovviamente.
Da Ferguson, a Klopp che ha fatto sbocciare un nuovo corso. Pensi che sia finalmente colui che può essere accostato a Bill Shankly sia per il tipo di ricostruzione della squadra, che per come è entrato in empatia con Anfield?
Direi di si. Klopp è uno che si fa molto amare in generale dai tifosi di calcio. Estremamente positivo, sorridente, in un'epoca in cui ci si prende troppo sul serio. Sembra dire "va bene, impegniamoci, pero' è un gioco", e come tale lo si prende. Ha un'immagine estremamente positiva e sono contento che abbia successo. Poi naturalmente gioca un football meraviglioso. Consentimi di dire che ha finalmente cambiato il concetto del lungo possesso palla, denominato "tiki-taka", che io personalmente non approvo. Mi sembra una situazione simile al basket quando non c'era il cronometro dei 24 secondi. Con Klopp si va al sodo. Poi è chiaro che la sua non è storia, ma è cronaca, è un momento che stiamo vivendo.
A proposito di Herbert Chapman, grande manager dell'Arsenal di cui scrivi nel libro, come spieghi l’assenza ai vertici della Premier dei "Gunners" da un po’ di anni?
Più o meno lo stesso problema dello United. E secondo me hanno fatto un errore, cioè proseguire con Wenger anche quando il ciclo era evidentemente finito. Hanno ritardato un ricambio, non hanno acquistato nessuno davvero di vertice. Nel momento di ricostruire devi saper spendere i soldi, se li devi buttare è meglio tenere i giocatori che hai. Spesso si spendono a caso senza distinguere un buon giocatore da un fenomeno. Ora vedremo con Arteta, è un allenatore alle prime armi ma l'Arsenal l'ha vissuto e conosce perfettamente la storia di questo club.
Nella Premier League così apprezzata di oggi, c’è comunque qualcosa che non ti piace o che vorresti migliorare? Forse si è persa un po' l'atmosfera dei vecchi stadi?
E' un po' come nel motorsport, abbiamo sempre la suggestione dei vecchi circuiti. Rimpiangiamo per esempio il Nurburgring, ma è anche vero che su questi circuiti un tempo accadevano tragedie, cosa che praticamente oggi non accade più. Negli stadi inglesi di un tempo c'era trepidazione, ma non era più possibile andare avanti con quegli impianti. Un cambiamento era fatale. Per esempio di recente io sono stato al nuovo stadio del Tottenham e non si può non riconoscere quanto sia straordinario e avveniristico. Fa davvero capire la differenza.
Stefano Ravaglia
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