Felicia
Buonomo è giornalista e autrice. Nel 2007 inizia la carriera
giornalistica, occupandosi principalmente di diritti umani. Alcuni
dei suoi video-reportage esteri sono stati trasmessi da Rai 3 e
RaiNews24. È nella redazione di Osservatorio Diritti. Oltre al
giornalismo, porta avanti molti progetti poetici, tra cui uno di
street poetry sotto lo pseudonimo di Fuoco Armato, con il quale ha
partecipato alla riqualificazione del territorio a Bologna, Roma e
Milano, realizzando opere murali con proprie poesie inedite. Alcune
sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog letterari, quali
La rosa in più, Atelier poesia, la Repubblica – Bottega della
Poesia e altrove. Alcuni suoi versi sono apparti anche su riviste e
blog letterari degli Stati Uniti, quali Our Verse Magazine, The Daily
Drunk Mag e Unpublishable zine. A dicembre 2020, alcune sue poesie
verranno pubblicate sulla rivista parigina “L'Ours Blanc”. Altri
suoi testi poetici sono stati tradotti in spagnolo dal Centro
Cultural Tina Modotti. Cura una rubrica dedicata alla poesia su “Book
Advisor”. Pubblica il saggio “Pasolini profeta” (Mucchi
Editore, 2011), il libro-reportage “I bambini spaccapietre.
L'infanzia negata in Benin” (Aut Aut Edizioni, 2020) e la raccolta
poetica “Cara catastrofe” (Miraggi Edizioni, 2020). Dirige la
collana di poesia “Récit” per Aut Aut Edizioni.
Buongiorno, Felicia, e grazie di aver accettato di essere nostra ospite per quest'intervista.
Come nasce la tua passione per il giornalismo e per la scrittura in genere? Ti va di raccontarci qualcosa sulla sua genesi ed evoluzione?
Ho
cominciato a fare la giornalista subito dopo la laurea. È stato un
passaggio naturale, sapevo già cosa avrei voluto fare nella vita.
Finiti gli studi universitari ho reso il giornalismo la mia
professione. Nel tempo ho intrecciato i linguaggi, dunque alla carta
stampata ho unito il giornalismo televisivo, che mi consente di
raccontare in modo diverso, anche con le immagini. Poi è arrivata
anche la scrittura, l'impegno in campo letterario, che tuttavia non è
mai svincolato dall'approccio di indagine sociale che da sempre mi
accompagna nella mia professione di giornalista.
Immagino che l'interesse per i diritti umani sia inestricabilmente legato alla tua formazione universitaria. Confermi?
In
realtà, ho conseguito la laurea in Economia internazionale, che è
sì la parte sociologica delle dinamiche economiche mondiali, ma è
pur sempre una facoltà di natura tecnica. Mi sono interessata ai
diritti umani quando ho capito che avrei voluto fare giornalismo
senza necessariamente rincorrere la notizia di attualità o di
cronaca. Sentivo di avere necessità di raccontare scendendo in
profondità, indagando, narrando. E così mi sono specializzata, nel
tempo, in quello che viene definito giornalismo narrativo,
realizzando diversi video-reportage, soprattutto all'estero, con al
centro la denuncia della violazione di diritti umani. Uno di questi è
diventato anche un libro: “I bambini spaccapietre. L'infanzia
negata in Benin” (edito da Aut Aut Edizioni), dove narro dello
sfruttamento del lavoro minorile nell'industria edilizia in Benin,
paese dell'Africa occidentale, che nasce proprio da un
video-reportage realizzato per Rai3.
Sotto
questo punto di vista, quali sono le problematiche che hai più a
cuore?
Domanda
davvero molto difficile. Quando si ha questo tipo di approccio si
vorrebbe raggiungere ogni tema, ogni angolo di mondo, e denunciare,
dare voce il più possibile a chi ne è privato. È anche vero, però,
che ci sono temi che ho indagato maggiormente. Uno di questi è
l'infanzia negata, a cui ho dedicato anche – come dicevamo prima –
una pubblicazione editoriale. Poi c'è il tema della violenza di
genere, che ho indagato sotto vari punti di vista, anche letterario.
La mia raccolta poetica “Cara catastrofe” (edita da Miraggi
Edizioni), infatti, “narra”, in versi, un certo mondo di
sofferenza declinato al femminile, dove vesto i panni della testimone
(soprattutto nella seconda sezione del libro), traslando in versi
alcuni universi di violenza e dolore di donne che ha incontrato, in
alcuni casi direttamente, altri per interposta persona, nella mia
professione di giornalista, mischiando personalismi rispetto al modo
in cui si può entrare, empaticamente, in contatto con alcuni moti
interiori.
Sensibilizzare
è il primo e imprescindibile passo per l'eliminazione di ogni
disuguaglianza, per evitare che i diritti dell'uomo vengano violati.
Credo che possano fare assolutamente la differenza. Perché il loro
compito è informare, far conoscere porzioni di realtà misconosciute
o conosciute male. È dall'informazione che si parte per iniziare una
“battaglia”. Questo è il motivo per cui io ho scelto di fare
giornalismo anche nel campo dei diritti umani.
Cosa
pensi rispetto al mondo del non profit e delle ONG?
Questa
è una domanda che mi offre lo spunto per parlare dei diversi modi di
cooperazione possibile. Esiste la cooperazione passiva, dove
l'Occidente aiuta i paesi in via di sviluppo, ma senza mai renderli
indipendenti. E poi esiste la cooperazione attiva, o di cittadinanza
attiva, che invece consente ai paesi di essere autonomi, ai cittadini
di poter imparare nuovi mestieri, di diventare essi stessi
imprenditori. Questa seconda tipologia è quella in cui io più
credo. Spesso, e i casi di cronaca ce lo narrano, realtà del mondo
cooperativo hanno agito in spregio alle regole, ma sono casi isolati.
È solo una deviazione rispetto ad un mondo, quello della
cooperazione, che spesso diventa l'unica possibilità per creare
un'alternativa per popoli soggiogati da povertà e sfruttamento.
Pasolini è un tuo punto di riferimento incrollabile. Che tematiche sviluppi nel saggio edito da Mucchi Editore?
Nel saggio “Pasolini Profeta” cerco di indagare la società del 2011 (anno di uscita del libro) partendo da alcune considerazioni sociologiche operate da Pasolini negli anni Sessanta. Dei tanti scritti prodotti da Pasolini, ho deciso di avvalermi degli interventi che lo scrittore affidò dal 1960 al 1965 alle pagine della rivista Vie Nuove con la rubrica “Dialoghi con Pasolini”, dove lettori di ogni genere, età e ceto sociale, fanno riferimento all'illustre poeta e pensatore, ponendo in risalto oltre che problematiche letterarie, situazioni o esperienze di vita sociale. A partire da quella corrispondenza ho operato una sorta di parallelismo ai nostri giorni, evidenziando come alcune tematiche sociali – chiaramente “aggiornate” al loro proprio e specifico tempo – siano cicliche. Per fare un esempio: molti dei ragazzi di borgata della Roma di Pasolini erano immigrati dal Sud Italia, una fetta di società che ai tempi viveva le stesse problematiche che oggi vivono gli immigrati proveniente da ogni parte del mondo; immigrati – oggi – non solo economici, anche persone che scappano da guerre e in pericolo di vita e che rischiano ugualmente la vita nei cosiddetti viaggi della speranza. Per questo Pasolini profeta.
L'elenco
potrebbe essere lungo. Rischierei di fare torto a me stessa nel
citare alcuni e non altri, che ugualmente hanno contribuito alla mia
formazione letteraria. Ma è vero che ci sono nomi che sono stati
fondamentali per allargare il mio sguardo, che mi hanno aiutato a
comprendere che tipo di voce avrei voluto avere. Nel campo del
giornalismo narrativo, un indiscusso maestro è Ryszard Kapuściński,
giornalista polacco che ha raccontato rivoluzioni, guerre e colpi di
Stato nei suoi 30 anni di attività, ricorrendo sempre, nei suoi
racconti, al sentimento dell'empatia; a tal proposito mi permetto di
consigliare ai lettori il suo saggio “L'altro” (Feltrinelli
Editore). In campo poetico, l'ambito letterario che pratico sia da
lettrice che autrice, mi sento molto vicina a voci viscerali come
quelle della poetessa russa Marina Cvetaeva, alla disperazione mai
vittimistica del Cesare Pavese poeta o di Amelia Rosselli. Ma
sarebbero davvero tanti, troppi, i nomi che potrei fare.
La street poetry è spesso tacciata di essere una forma di espressione bassa e popolare, come se la poesia dovesse essere solo qualcosa di elitario. Vuoi commentare?
È
vero, da più parti la street poetry viene etichettata in questo
modo. Ma io non sono affatto d'accordo. È chiaramente un modo altro
di intendere la poesia, che segue criteri e obiettivi diversi dal
mondo editoriale. Ma i due mondi non sono assolutamente
inconciliabili. E il mio progetto di street poetry, Fuoco Armato, ne
è un esempio. Attribuisco al movimento della Street Poetry una
valenza sociale, capace anche di far uscire la poesia dalle aule
accademiche, avvicinando le persone alla parola e ai colori. Ho
partecipato a diversi progetti di riqualificazione dei quartieri
attraverso l'arte come “Fuoco Armato” e si è sempre rivelato un
modo intenso e aggregante di vivere l'arte e la socialità.
Ti
va di farci leggere un tuo componimento a cui sei particolarmente
legata? Grazie!
Sono legata ad ogni mio componimento, nello stesso modo in cui ne sono insoddisfatta. Scelgo una poesia tra tutte, perché è quella che mi ha dato la gioia di uscire fuori dai confini nazionali, essendo stata tradotta in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti di Caracas ed è apparsa anche su una rivista negli Stati Uniti; è la poesia che abbiamo deciso con l'editore di inserire in quarta di copertina della mia silloge poetica “Cara Catastrofe”. E con questi versi, vi ringrazio per l'ospitalità:
«Mi parli del tempo che distrugge,
della ribellione che non c'è
della dignità frantumata
sotto il peso di parole rabbiose.
Fai l'elenco delle mie colpe
con la stessa voce di chi urlava “Barabba!”.
Mi ricordi che anche il figlio di Dio
è fatto di carne che sanguina e muore.
E che nessuno aspetterà, per me,
il terzo giorno».
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